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Blue Ruin (2013)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 20 apr 2021
  • Tempo di lettura: 5 min

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Blue Ruin

USA/Francia 2013 thriller 1h30’


Regia: Jeremy Saulnier

Sceneggiatura: Jeremy Saulnier

Fotografia: Jeremy Saulnier

Montaggio: Julia Bloch

Musiche: Brooke Blair, Will Blair

Scenografia: Kaet McAnneny

Costumi: Brooke Bennett


Macon Blair: Dwight

Devin Ratray: Ben Gaffney

Amy Hargreaves: Sam

Kevin Kolack: Teddy Cleland

Eve Plumb: Kris Cleland

Amy Hargreaves: Sam


TRAMA: Dwight è un derelitto, fruga nella spazzatura e dorme nella sua macchina. Capiamo come sia arrivato a questa condizione solo quando viene a sapere che un uomo sta per uscire di prigione: la persona che anni prima ha ucciso i suoi genitori e che ora è di nuovo a piede libero. La notizia gli ridà forza, lo rimette in sesto, determinato a pareggiare i conti uccidendo la persona che la legge ha lasciato libera. Dwight però è anche una persona normale, che ha poca confidenza con le armi o con la violenza, ed è solo la forza del desiderio che lo anima a spingerlo.


Voto 7

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C’è un fil rouge che lega i lungometraggi di Jeremy Saulnier, sempre contenenti storie di morti violente e contorni misteriosi che le avvolgono, caratteristica che si riaffaccia prepotente in questa sua seconda opera (si interessa anche di serie TV, suoi due episodi del True Detective del 2019). Senza mai disdegnare di aggiungere altri elementi che inquinano la dura atmosfera del noir creata come in un b-movie come è essenzialmente questo film: una giusta dose di black humour, per esempio, che sorprende non poco e che concede qualche attimo (ma proprio solo qualche) di tregua alla tensione che non abbandona lo spettatore. E non solo, è anche una amara e impietosa fotografia dell’America delle armi, una nazione dove ci sono più fucili e pistole che abitanti; e poi il legame familiare che si affaccia intenso in più punti del film. E poi ancora il dolore che il protagonista si trascina da anni, come la voglia di vendetta che esplode all’improvviso in una persona inconsapevole di questa rabbia recondita. Un autore praticamente sconosciuto e un attore feticcio protagonista che, essendo suo amico intimo, non solo ne è anche produttore ma risulta perfetto nel ruolo, riportando i suoi atteggiamenti e il suo physique du rôle catapultati nel suo Dwight. Macon Blair è un buonissimo caratterista (rivisto recentemente fare come al solito il personaggio fuori controllo in I Care a Lot (recensione) e che quando gli capita un’occasione come questa se la cava alla grande.

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La prima sorpresa è contenuta nell’incipit, quando una poliziotta parcheggia l’auto di servizio accanto alla Pontiac che da dieci anni è la casa, la camera da letto, la sala di lettura e anche la pattumiera di Dwight. L’agente non si avvicina a quel barbone per intimargli di andare via o per arrestarlo per vagabondaggio: lo invita a recarsi con lei nella stazione di polizia per metterlo al corrente di una novità che lo riguarda. L’assassino dei suoi genitori, già condannato e detenuto in carcere, per via di una recente delibera statale è stato scarcerato e adesso è pronto per uscire dalla galera. In poche parole, la poliziotta si è preoccupata di quell’uomo divenuto barbone per disperazione e per il timore che, una volta saputa la notizia da altri, possa avere reazioni sbagliate o desideri di vendetta. Lo incita alla calma e alla riflessione, soprattutto a lasciar perdere e cercare di tornare ad una vita più dignitosa. Ed invece il giovanotto reagisce alla notizia preparandosi a quello per cui è completamente inadatto: la vendetta, forse mai covata ma, per questo improvvisata specialmente da un dilettante con le armi come lui, immediatamente maturata in seguito alla nuova situazione creatasi.

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Eccolo, il b-movie, il revenge, l’action seppure molle e approssimativo da parte di una persona che non sa neanche impugnare un’arma, che, come si vede in seguito, non è capace di colpire un uomo neppure a due metri di distanza. La famiglia del suo “nemico” abita nei boschi, come un canonico romanzo da ambiente redneck, quella generazione di gente incolta e rabbiosa che vive in zone separate dalle cittadine, visi cattivi, arcigni, senza scrupoli, che uccidono senza pentimento e per semplici ragioni di sopravvivenza e primato. Ma già questi sentimenti sarebbero troppo nobili e ideologici, per loro. L’assassino aveva ucciso il padre (e la madre) di Dwight perché aveva scoperta la tresca che aveva con sua moglie ma quando il protagonista viene a scontrarsi con il fratello del condannato viene a scoprire una sconcertante verità, che lo mette ulteriormente in crisi. Dwight non è un giovane violento, non ha dimestichezza con l’aggressività verso le altre persone, non sa maneggiare fucili, ma lo addestra e lo fornisce in maniera adeguata il suo amico d’infanzia Ben. La casa di quest’ultimo è in pratica una armeria: fucili di ogni tipo, per la distanza corta e lunga, pistole da difesa e collezione, munizioni in abbondanza. È l’America delle armi, è l’America del Secondo Emendamento secondo il quale ogni cittadino ha diritto di possedere armi per la propria difesa personale e quella della sua proprietà, è l’America da cui ogni settimana giungono notizie di sparatorie, di massacri in ambito scolastico, di gente che va in giro armata come fosse in Vietnam. Ecco l’aspetto che non ti aspetti da un noir dal nome blu, ecco il risvolto sociale piazzato in un film di vendetta, che altri autori di secondo livello non si sono mai sognati di ficcarci dentro. È per questo motivo che tra l’imbranataggine del personaggio principale, la sua goffaggine nei movimenti – contrapposta però ad un decisionismo da militare nato allorquando deve preparare la mossa successiva ogni volta che si trova in difficoltà, davvero sorprendente – qualche battuta da commedia nera della buonissima sceneggiatura offrono istanti di pausa apprezzabili.

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Quello che si ammira nell’opera di Jeremy Saulnier è comunque una certa sapienza nella scelta degli attori (a prescindere da quella del protagonista, impeccabile) che dimostra quanto il regista abbia saputo dedicarsi alla cura dei particolari e che siano i visi dal ghigno malvagio o il fisico degli attori o l’oggettistica sparsa negli ambienti non conta: le inquadrature molto ben studiate offrono ricchi particolari, primi piani sia sui visi che sugli oggetti che ritornano più tardi e che rappresentano le boe del racconto, che va avanti dritto per la sua strada come un cingolato, dato che Dwight ha un preciso scopo nella sua vita. Dopo il primo ammazzamento, è impressionante il suo cambiamento: via la folta e lunga barba da homeless, via tutte le cose inutili ammassate nel bagagliaio della sua Pontiac azzurra (blue come il titolo?), via i vecchi e sporchi vestiti (il film inizia con lui che fa il bagno nella vasca di una casa i cui proprietari sono usciti!...), ed eccolo ben vestito e pulito come un ragazzo per bene che va in cerca del resto della famiglia dell’assassino per portare a termine la faida appena iniziata. Jeremy Saulnier non ha tempo e voglia per un film buonista dalla happy end, non ha evidentemente la pur minima intenzione di far finire meglio il suo film, e quindi ci porta per mano verso una resa dei conti dove l’unico sopravvissuto non è quello che ci si aspetta. La felicità sta nell’aver concluso l’operazione iniziata, tanto la vita, prima, non era così meglio del finale. Dwight sa almeno che ha salvato la sorella e le nipotine dalla ulteriore vendetta della famiglia assassina. La felicità è forse anche una cartolina che, partita dalla Virginia dove lui vivacchiava in auto, è finalmente arrivata alla sorella, che purtroppo ha abbandonato per prudenza quella casa.

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Blue è la sua auto, blue è l’oceano in cui si purifica il corpo, blue è sicuramente la rovina in cui si è trovato e a cui è andato ulteriormente incontro, ma il tanto sangue versato – dai proiettili, dalle frecce della balestra, dai pugnali conficcati nella tempia – è rosso scuro. Blue è la notte in cui si allontana il giovane ragazzo che ha messo fine al massacro, in un racconto che pare uscito dalla penna di Cormac McCarthy e adattato dai fratelli Coen. Sembra un piccolo film, e forse lo è, ma solo perché si può sottovalutarlo. Ed invece è un film che si fa ammirare.


 
 
 

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