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Burning – L’amore brucia (2018)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 9 giu 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

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Burning – L’amore brucia

(Beoning) SudCorea/Giappone 2018 dramma 2h28’


Regia: Lee Chang-dong

Soggetto: Haruki Murakami (Granai incendiati, L'elefante scomparso e altri racconti)

Sceneggiatura: Lee Chang-dong, Oh Jung-mi

Fotografia: Hong Kyung-pyo

Montaggio: Kim Da-won, Kim Hyun

Musiche: Mowg

Scenografia: Shin Jum-hee

Costumi: Lee Choong-yeon


Yoo Ah-in: Jong-su

Steven Yeun: Ben

Jeon Jong-seo: Hae-mi


TRAMA: Jong-su, un lavoratore part-time, durante una consegna incontra Hae-mi, che viveva nel suo stesso quartiere. Hae-mi gli chiede di occuparsi del suo gatto mentre lei sarà in viaggio in Africa. Al suo ritorno gli presenta Ben, un giovane misterioso che ha conosciuto mentre era via. Un giorno, Ben fa visita a Jong-Su con Hae-mi e confessa il suo hobby segreto: è un piromane.


Voto 8


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Nel pullulare formicolante delle strade di Paju, città a nordovest molto prossima al confine con la Corea del Nord, da cui arriva musica dagli altoparlanti messi in direzione sud per ampliare la propaganda politica, cogliamo la vita anonima di Jong-su, giovane diplomato in scrittura creativa con forti aspirazioni da scrittore (è appassionato di William Faulkner), che sbarca il lunario con lavoretti saltuari, ripromettendosi costantemente di cominciare il romanzo che ha in mente. È durante il suo girovagare che incontra una ragazza, Hae-mi, molto carina. Dice di averlo riconosciuto: sono cresciuti assieme nel povero quartiere periferico dove il giovane abita ancora nella piccola fattoria del papà (una mucca!). È venuto su praticamente solo, con un padre che non riesce a gestire la rabbia quando gli prende e che è sotto processo per violenze verso un pubblico ufficiale. Un padre così violento che la mamma è andata via di casa molti anni prima. Si son ritrovati in quella strada, davanti ad un locale dove lei, ragazza pompon, invita i passanti a giocare alla lotteria, ed è lì che inizia la loro amicizia: due pianeti differenti anche se nati nello stesso posto, due mentalità diverse e due programmi per il futuro. L’intesa nata tra i due ispira forte simpatia e porta facilmente alla frequentazione e ad un primo rapporto amoroso, ma l’intervento di un terzo, il facoltoso Ben, personaggio ancor più diverso dai due, cambia di parecchio gli equilibri che stavano nascendo. Fino ad un finale che matura lentamente e che lascia interdetti, anche se stava diventando inevitabilmente prevedibile.


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Il film, armonioso come solo l’arte asiatica sa costruire, conduce a diverse riflessioni. Prima di tutto ad un vagheggiante senso di mistero che ammanta l’intera trama. Hae-mi racconta al suo amico d’infanzia, che però fa fatica a riconoscerla, di quando era caduta in un pozzo secco e lui l’aveva salvata: lui non ricorda affatto l’episodio e si chiede di continuo dove mai fosse quel buco che non si trova più. Lei vive in una stanza in un quartiere periferico della città, semibuia e fredda, dove il sole fa capolino solo di riflesso, ha una gatta, Caldaia, trovata per caso ma che non si fa mai vedere. È assai strano come faccia a sparire in un monolocale. Ma esiste veramente? Eppure la ciotolina del cibo si svuota! Jong-su è un giovane limpido e sincero, persino a tratti ingenuo, dal canto suo Hae-mi è sempre vaga e misteriosa, sul suo passato, sul presente e chissà quali progetti fa del futuro. L’arrivo del ricco Ben è l’ennesimo enigma della storia: vive nel centro della città in un lussuoso condominio, guida una rombante Porsche e non si sa bene da dove provenga la sua agiatezza. Invita spesso gli amici, oltre che i due, ma durante le cene succede sempre lo stesso fenomeno: sbadiglia, sorridendo a Jong-su, quasi ammiccando. Il mistero diventa un giallo vero e proprio allorquando la ragazza, che ormai palesemente sta con Ben, confida di fidarsi solo di Jong-su e l’altro non nasconde la sua gelosia. Da quel momento Hae-mi sparisce. Per sempre. Pur cercata disperatamente dall’amico che si è reso conto di essersene innamorato. Non riesce a dimenticare le ore trascorse assieme, l’amore scambiato – anche se avvertito poco sincero da parte di lei -, gli sguardi, le espressioni enigmatiche, la sfuggevolezza. Il vero e più incomprensibile mistero però resta la strana mania da piromane di Ben, che ammette di provare grande soddisfazione quando dà fuoco alle serre che trova nelle campagne. Serre coltivate o secche, ma di proprietà altrui.


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Eccoci alle seconde considerazioni: il fuoco. Il rosso fuoco che incanta Ben, che illumina il meraviglioso cielo al tramonto goduto dai tre nella veranda della modesta casa di Jong-su. Come quel tramonto sul deserto africano che comincia arancione per diventare alla fine rosso sangue. Il nome del gatto che la giovane aveva raccolto cucciolo nel locale della caldaia in cerca di calore, quel calore umano che l’animale evita sparendo materialmente alla vista delle persone, diventando quasi immaginario, ma riapparendo quando la sua padroncina sparisce misteriosamente. Il fuoco che soggioga anche il promesso scrittore quando viene tentato per spirito di imitazione di dare alle fiamme una serra abbandonata. Il fuoco, le fiamme, sono la smania di Ben e anche il tragico epilogo nel finale inaspettato.


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Più fili di racconto: quello di Jong-su cresciuto autodidatta e da solo, con la mamma scappata dalla violenza del marito; quello di Hae-mi dalla vita seminascosta, alla ricerca della felicità; quello di Ben il più indecifrabile dei tre protagonisti, che sembra non accorgersi delle indagini dell’altro e che irrompe all’improvviso consapevole dei pensieri del giovane. Fili di racconto che si intrecciano legandosi in un intrigo metafisico tra e fuori le fiamme dei granai del romanzo originario che ha dato lo spunto al magistrale regista Lee Chang-dong.


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La fame di conoscenza che spinge Hae-mi a scoprire le antiche tradizioni dell’Africa, terra che visita per studiare e capire meglio quelli che lei chiama “piccoli affamati” e “grandi affamati”, cioè coloro che iniziano a scoprire il sapere e che poi crescono con la cultura. Lei non è in grado di spiegare questa crescita, la racconta e la esplica con un ballo sensuale di fronte al tramonto campestre al suono della tromba di Générique di Miles Davis.


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Lee Chang-dong, dopo il bellissimo Poetry, sciorina un piccolo grande capolavoro, denso dei colori delle inquadrature contemplative che ama mostrare, scegliendo giustamente il ritmo e il tempo che serve, con una tecnica di regia esemplare. La messa in scena che rasenta la perfezione alternando gli sfondi della storia: città e campagna, la vita vissuta della prima e l’ambiente proletario della seconda, gli esterni assolati o innevati e gli interni intimi delle piccole case, il lusso dell’appartamento di Ben e la semplicità d’arredo delle abitazioni dei due giovani. Nel complesso, un territorio variegato in cui vivono tre personaggi con tre identità molto differenti, tre pianeti che si mettono a girare l’uno intorno agli altri con delle orbite ellittiche. Un fascinoso racconto che Lee Chang-dong orchestra in maniera armoniosa incantando l’occhio del cinefilo con un certosino lavoro di fotografia, di Hong Kyung-pyo, pieno di colori forti ma mai stridenti, anzi armonici, quasi a portarci negli altrettanto forti sentimenti che pervadono l’opera. L’innamoramento inaspettato, la passione che nasce, i sogni da realizzare, i misteri e le bugie, la violenza nascosta, il Male che aspetta il suo momento, l’esecuzione carnale colorata di rosso porpora e riscaldata dalle lingue di fiamma del fuoco. Un cinema che affascina, che attrae, che conquista con l’aspetto poetico che solo l’Oriente sa donarci.


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Yoo Ha-in, Jun Jong-seo e Steven Yeun sono delle scoperte inebrianti (personalmente non li conoscevo): sicuramente sono stati bravissimi ma sono anche il frutto dello sguardo di un regista in stato di grazia. Hanno saputo trasmettere l’irrequietezza dei loro personaggi ben scritti dalla sceneggiatura del medesimo autore, con l’ingenuità del primo, che per forza di cose impara ad aprire gli occhi sulla realtà, la fragilità mascherata della seconda, la fredda perversione sorridente del terzo. Una trilogia di caratteri che riempiono un bellissimo film, in cui al termine sopravvive solo la semplicità e la sincerità del deluso Jong-su. Alla pari e con la determinatezza che lo conduce a prendere la decisione finale. Come forse suo padre.


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Ho riflettuto e non so come classificarlo: fa parte di un genere? È un thriller, un dramma, un sogno giovanile, un incubo, un horror… È l’ennesima rappresentazione del Bene e del Male? È l’anima che brucia nel rosso del tramonto coreano, che si spegne lentamente verso il viola, il blu, il nero del buio dell’anima, con un calice di rosso in mano.



 
 
 

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Il Cinema secondo me,

michemar

cinefilo da bambino

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