Close (2022)
- michemar

- 9 mar 2023
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 17 mag 2023

Close
Belgio/Olanda/Francia 2022 dramma 1h44’
Regia: Lukas Dhont
Sceneggiatura: Lukas Dhont, Angelo Tijssens
Fotografia: Frank van den Eeden
Montaggio: Alain Dessauvage
Musiche: Valentin Hadjadj
Scenografia: Eve Martin
Costumi: Manu Verschueren
Eden Dambrine: Léo
Gustav de Waele: Rémi
Émilie Dequenne: Sophie
Léa Drucker: Nathalie
Kevin Janssens: Peter
Marc Weiss: Yves
Igor van Dessel: Charlie
Léon Bataille: Baptiste
TRAMA: Léo e Rémy, 13 anni, sono sempre stati amici, fino a quando un evento impensabile li separa. Léo allora si avvicina a Sophie, la madre di Rémi, per cercare di capire.
Voto 7,5

Opera seconda (e molto attesa) diretta da Lukas Dhont, scritta dallo stesso e Angelo Tijssens, coppia di sceneggiatori del buonissimo primo film, Girl del 2018, che aveva vinto numerosi premi in tutti i festival, in particolare la Caméra d’or a Cannes 2018 come miglior esordio. Tornando sul set, il regista sceglie di trattare ancora una storia di un adolescente, come la Lara del film precedente, ma spostando l’obiettivo su una coppia di affiatatissimi tredicenni, Léo e Rémi, compagni di banco, di tempo libero, di giochi, di famiglia. Di tutto. Due giovanottini che non sanno vivere l’uno senza l’altro. Stanno così tanto tempo assieme e in estrema confidenza, in maniera totalmente innocente e spontanea, che, in particolar modo le amiche, chiedono loro se “stanno assieme”, sbalordendoli per una domanda tanto ritenuta sciocca, addirittura fuori luogo: per i due, non staccarsi neanche un momento del tempo in cui possono frequentarsi e assumere atteggiamenti di forte legame è spontaneo, è consequenziale all’amicizia che li unisce e li fa star bene. Léo è il più irrequieto, vivace, quello che esprime maggiormente i sentimenti e gli entusiasmi, che prende più iniziativa; Rémi è più tranquillo, sornione, silenzioso, ma non per questo non prova i medesimi sentimenti. Lavorano entrambi, dopo le lezioni in classe, nella fattoria delle famiglie di appartenenza, dopo che sono andati e tornati, ovviamente e come sempre insieme, pedalando fianco a fianco sulle loro bici, mentre ridono e si sorridono, inquadrati dalla camera da presa sempre dal lato destro, sia all’andata che al ritorno. Fatto inusuale per un film, dato che i registi preferiscono solitamente filmare da un lato nel viaggio di andata e dall’altro in quello del ritorno. Solo successivamente alla sciagura che cambierà la trama del film, dopo non molti minuti di narrazione, Léo verrà inquadrato solo dal lato sinistro. Quando sarà drammaticamente solo.

È innocente e senza allusioni il loro modo di stare vicini, darsi la mano, dormire nello stesso letto dopo la cena che molto spesso Léo trascorre in casa dell’amico, accettato come un fratellino aggiunto alla loro famiglia. Scherzano, giocano, fanno la lotta, come accade a tanti adolescenti, sempre ridendo. Se lo spettatore comincia a sospettare che ci sia davvero qualcosa oltre non è provocato dal regista ma dalle apparenze innocenti: se sia un trattamento queer, leggero e spontaneo, non è il tema centrale del film, non ci interessa. È solo la sincera relazione tra i due il perno intorno al quale gira la storia e da cui scaturisce il dramma, il loro bisogno di stare assieme che li fa sentire appagati, che loro ritengono naturale, tanto è normale che sia così. E quando sentono se “stanno assieme” si guardano stupiti come se gli altri non abbiano mai capito la bellezza di un’amicizia di quella forza. Perché quella etichetta? Perché non basta rispondere “siamo come fratelli”? Eppure, quella inattesa domanda, espressa tra le risatine scuote probabilmente il vivace Léo, il quale da quel momento (coincidenza o reazione?) viene indotto (istintivamente? volutamente?) ad allentare leggermente la vicinanza conclamata. Accetta l’invito di un amico di frequentare la scuola di hockey su ghiaccio e quella sera non dorme nello stesso letto di Rémi preferendo un materasso vicino, insospettendo il fidato compagno, che si sente respinto e spinto a chiedere come mai non l’ha aspettato come al solito fuori dalla classe.

La strana assenza del deluso Rémi alla partecipazione della gita scolastica meraviglia non poco l’altro, rimasto deluso e meravigliato, e soprattutto più quieto del solito. La spiegazione, tragica e impensabile, la apprenderà al ritorno, quando tutti i genitori sono ad accogliere preoccupati la scolaresca e sua madre Nathalie sale sul pullman con l’espressione stravolta. Perché Rémi ha preso una decisione così tragica? È devastato dal dolore per una perdita non rimarginabile, perché a ciò si aggiunge il senso di responsabilità dell’accaduto. Ora il film affronta i temi che nobilitano l’opera di Lukas Dhont: il bullismo, la salute mentale dei giovanissimi, la depressione, la ricerca identitaria, il senso di colpa, l’elaborazione del lutto. Léo ha sempre dato segnali di insonnia e di irrequietezza notturna, appena acquietati quando dormiva nel letto dell’amico, ma ora questi fastidi lo scuotono nel profondo, maggiormente afflitto dai sensi di colpa. E non sa come affrontare la mamma di Rémi, Sophie, (si rivede Émilie Dequenne, la Rosetta dei Dardenne), che non è ancora al corrente del lieve appannamento del legame tra i ragazzi prima del gesto funesto del figlio.

La bellissima fotografia di Frank van den Eeden, lo stesso di Girl, esalta gli splendidi colori della campagna olandese (dove si sono realizzate solo le riprese dei campi) con le piante variopinte della fattoria di fioricoltura di famiglia del ragazzo, che se prima coglieva i fiori in cima agli steli, ora, metafora della tempesta abbattuta nella sua vita adolescenziale, si deve chinare per raccogliere quelli recisi dal maltempo, sporchi di terra bagnata. Quei campi che una volta percorrevano felici di corsa. Ora Léo non sorride più e sente la necessità di chiarirsi non con la propria ma con l’altra mamma, a cui deve prima o poi confidare cosa si era rovinato.

Se il cast scelto dal regista sembra davvero indovinato, con due attrici esperte come Léa Drucker e soprattutto l’intensa Émilie Dequenne, la bella sorpresa è la bravura di Eden Dambrine e Gustav de Waele, che, come tanti bambini e ragazzini, recitano come fossero dei professionisti, ma chi stupisce per davvero è la forza espressiva del primo. La lucida regia di Lukas Dhont, conscio del materiale umano a disposizione, punta dritto l’obiettivo sul suo viso acerbo ed eloquente e sui suoi occhi fortemente espressivi per raccontare tutti i gradi di stati d’animo, spessissimo in primo piano, che il giovanissimo sopporta e supporta con meravigliante compostezza, esprimendo gioia e dolore con una facilità impressionante. La macchina punta sul suo sguardo e Eden Dambrine ricambia trasmettendoci i segreti pensieri che gli attraversano la mente, le gioie e le preoccupazioni, dritto sino alla disperazione che fa fatica a trattenere, nel tormentato sforzo di chiarirsi non tanto con i suoi genitori quanto con quella che lui riteneva una seconda madre. Una delle scene più difficile da interpretare è proprio quella in auto in cui avviene la rivelazione, da un lato liberatoria e dall’altro devastante, con le conseguenze prevedibili. Negative e positive, se così si possono definire quelle dopo il ripensamento nel bosco. Il regista fiammingo ottiene un film notevole sotto l’aspetto interpretativo ma anche sotto quello delle immagini (la prima sequenza con i ragazzi che corrono in mezzo alle alte piante di fiori è stupenda) e risulta evidente come abbia amato fotografare la bellezza della natura, tanto da ricordare il Malick di The Tree of Life. Ma questo è solo l’aspetto esteriore e artistico, mentre la materia prima del soggetto è delicatissima e fragile, un materiale emotivamente esplosivo, tanto simile alle tremende esperienze che tante famiglie hanno dovuto sopportare, e che non si sa quale effetto possa avere sullo spettatore.

Il regista ottiene il meglio nella parte del film in cui Léo deve esprimersi nel dolore e, ancora più arduo, nella difficoltà di spiegare il suo inopinato comportamento, causa di tutto, una volta pressato dagli altri. Attraverso la performance straordinariamente intuitiva e precisa di Eden Dambrine, tanto quanto attraverso la sceneggiatura, comprendiamo quella dinamica in cui una persona fa cose che sono devastanti per qualcuno che ama, magari a causa di ragioni di pressione sociale, e sappiamo nel profondo che è sbagliato farlo, ma si continua a farlo comunque ugualmente, rifiutando di dare spiegazioni quando è la parte lesa che chiede le motivazioni. L’atmosfera genera anche un certo senso di suspense mentale allorquando non sappiamo se e quando il piccolo protagonista sarà pronto a parlare francamente a Sophie, momento inevitabile, improcrastinabile, che arriverà, anche per liberare il fardello che pesa sulle spalle di una persona troppo giovane per dover soffrire da solo. Per alcuni esponenti della critica ufficiale il film è risultato troppo freddo oppure calcolatore alla ricerca della commozione del pubblico: io non ho avuto questa impressione, principalmente per il motivo che si resta coinvolti emotivamente dalla tragica vicenda e dalla bravura straordinaria di Eden Dambrine. Una vera sorpresa.

Presentato in concorso al 75º Festival di Cannes, dove ha guadagnato il Grand Prix Speciale della Giuria, il film è stato candidato al Premio Oscar al miglior film internazionale. Ha inoltre vinto il National Board Review Award ed è stato candidato ai Golden Globe, Satellite Award, Critics' Choice Awards e BIFA Awards sempre come miglior film straniero.






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