Corpus Christi (2019)
- michemar

- 24 gen 2022
- Tempo di lettura: 7 min

Corpus Christi
(Boze Cialo) Polonia/Francia 2019 dramma 1h55’
Regia: Jan Komasa
Sceneggiatura: Mateusz Pacewicz
Fotografia: Piotr Sobocinski Jr.
Montaggio: Przemyslaw Chruscielewski
Musiche: Evgueni e Sacha Galperine
Scenografia: Marek Zawierucha
Costumi: Dorota Roqueplo
Bartosz Bielenia: Daniel
Aleksandra Konieczna: Lidia
Eliza Rycembel: Marta
Tomasz Ziętek: "Pinczer"
Barbara Kurzaj: Ewa Kobielski, la vedova
Leszek Lichota: Walkiewicz, il sindaco
Zdzislaw Wardejn: il prete
Lukasz Simlat: padre Tomasz
Juliusz Chrzastowski: poliziotto
Radoslaw Ciucias: il cappellano
TRAMA: Daniel è un ventenne che vive una trasformazione spirituale mentre sconta la sua pena in un centro di detenzione. Daniel vorrebbe farsi prete ma questa possibilità gli è preclusa per la sua fedina penale. Uscendo dal centro di detenzione, gli è assegnato un lavoro presso un laboratorio di falegnameria in una piccola città, ma al suo arrivo, essendosi vestito da prete, viene scambiato per il parroco. La comparsa di questo giovane e carismatico predicatore diventa l'occasione per la comunità, scossa da una tragedia avvenuta qualche tempo prima, per cominciare a rimarginare le sue ferite.
Voto 7,5

Leggendo la breve sinossi, ci si potrebbe fare un’idea sbagliata della reale sostanza del film, pensando che tratti della solita occasione di un detenuto, di un delinquente tra i tanti che popolano le carceri, che cerca il miglior sistema per cavarsela e fare il furbo nel permesso-lavoro durante la detenzione, con tanti buoni propositi promessi sia all’agente responsabile che gli fa le opportune raccomandazioni prima di uscire e sia al cappellano della prigione. Poi, appena fuori, se succede che il destino gli offre una possibilità insperata, un’occasione da cogliere al volo e decidere in un istante in cui la vita può cambiare notevolmente. Impossibile scartare l’ipotesi di non sfruttarla, troppo attraente e per giunta proprio nella direzione delle aspettative, ormai precluse dalla fedina penale. Infatti, Daniel è un giovane che sta scontando una pena in riformatorio per aver pestato un altro ragazzo causandone la morte. Avrebbe voluto diventare sacerdote, una inclinazione che pare incredibile per uno come lui: ribelle, irrequieto, tatuato, affamato di vita, ma quando è nella cappella del carcere guarda ad occhi spalancati il sacerdote che celebra la messa e viene attratto dalle parole delle omelie, merito anche del cappellano che ha un approccio non rituale con i detenuti e che non rispecchia canonicamente gli schemi fissi delle funzioni religiose. Questi, spesso, inizia la messa con un discorso diretto, con un’ammonizione essenziale ed efficace, facendo presente che Cristo non è solo in quella chiesetta, è anche fuori, è anche in noi stessi, peccatori onesti e censurati. E lui lo ascolta estasiato.

No, non è il solito film del detenuto che vuol scappare col pretesto del pentimento e della vocazione al sacerdozio, no, è molto altro l’opera di Jan Komasa girata appena l’anno precedente all’altro chiarissimo successo che lo ha definitivamente affermato sulla ribalta internazionale, The Hater. Anche lì un protagonista giovane e euforico, arrivista, truffatore, criminale cibernetico. Invece il nostro Daniel ha davvero, contrariamente a ciò che può sembrare, una gran voglia di vestire l’abito talare, è il suo passato (forse anche il presente, ogni volta che gli capita) che lo fa allontanare. Ma il film del regista polacco è infatti ben altro. Nello sviluppo della trama, a tratti sconcertante, le vicende dimostrano come a chi vuol mettere nella pratica gli insegnamenti di Cristo con il servizio sacerdotale spesso non viene concesso perché ritenuto indegno e inadeguato, mentre tutti gli altri, come i cittadini della piccola comunità nella campagna della Polonia cattolicissima e conservatrice - che vanno devotamente in chiesa, che pregano con fervore, che accendono i lumini sotto l’altarino costruito sul margine della strada dove è successo il grave incidente che ha ucciso sei giovani del posto per colpa, così dicono, di un automobilista del paese ubriaco – si comportano come i farisei menzionati nel Vangelo. Quando devono dimostrare le loro convinzioni religiose nella vita quotidiana e quindi perdonare e rispettare anche la vedova del colpevole della sciagura stradale e accettare la donna nella loro comunità invece di insultarla ed escluderla, eccoli allora che si comportano come talebani e diventano violenti e cattivi. Un contrasto agghiacciante, in netta contraddizione con gli insegnamenti della Chiesa che in quella nazione ha tanto ascendente. Ma solo ipocritamente. Non concedono neanche la possibilità alla vedova di poter celebrare i funerali al marito, costretta a tenere le ceneri in casa, e mentre loro sono sempre a pregare davanti alle sei foto dei ragazzi, tra fiori e candele, quasi nessuno seguirà il corteo funebre quando finalmente l’automobilista avrà una degna tumulazione.

L’altra faccia della stessa medaglia, perfettamente consona all’ambiente descritto, è il potere costituito, quello detenuto sia dal parroco che dal prepotente sindaco, padrone anche della grande segheria dove Daniel si doveva presentare per il lavoro durante il permesso. Uomo che con le buone e le false maniere e con l’arroganza che lo contraddistingue riesce sempre ad ottenere ciò che gli fa comodo e a manipolare la piccola comunità. Il parroco, il classico prete di campagna, coadiuvato dalla signora Lidia, che gli fa da perpetua e sacrestana, madre di Marta e di uno dei giovani periti, è l’altra persona che ha forte influenza su quel popolo bigotto e incoerente ma quando il nostro protagonista arriva in paese, scambiato come quello che deve sostituire il parroco che ha avuto un grave malore, la situazione si spalanca con nuove prospettive, impensabili e a lui favorevoli. Daniel sta al gioco e assume le vesti insperate dell’inviato dalla curia: ma come fare a celebrare, predicare, svolgere i riti come stabilito e come seguitare nella gestione parrocchiale secondo le abitudini degli abitanti? Inutile dire che è intelligente e furbo, oltre che ispirato e sensibile verso gli argomenti che deve trattare e, memore del modo di operare del cappellano del carcere, anche lui destabilizza i canoni rituali e improvvisa il modo di dire messa, esaltando i fedeli con le parole che gli vengono spontanee, riprendendo i concetti delle omelie che ha sentito in carcere, invitando i cittadini alla leggerezza e alla gioia delle fede cristiana: lo guardano perplessi ma poi vengono conquistati da questo giovane prete irrituale che li fa persino sorridere, che li fa sentire più partecipi, che rivoluziona il vecchio modo di fare parrocchia. Il difficile verrà quando vorrà convincerli a concedere la sepoltura dell’automobilista ubriaco (ma lo era davvero?) nel cimitero del paese, perché non lo vogliono vicino alle tombe di chi ha perso la vita per colpa sua.


Daniel saprà, con grande difficoltà, mettere tutti d’accordo, organizzerà una bella festa per il Corpus Domini, sarà in grado di benedire in maniera anticonvenzionale la nuova ala della falegnameria del sindaco (tutti in ghingheri ed eleganti ma inginocchiati sul fango a pregare), raccoglierà a fatica danaro per i bisognosi (bigotti e tirchi!), avrà l’abilità di far elaborare il lutto collettivo. Ma quando tra gli operai della fabbrica arriva proprio il suo compagno di cella e in seguito anche il poliziotto che lo aveva fatto uscire dal carcere, il castello di carte crolla rovinosamente e lui capisce che è arrivato il momento tanto temuto e messo da parte e adesso deve saper reagire o rassegnarsi. Daniel è un ragazzo dallo sguardo penetrante, dagli occhi chiari grossi come fari luccicanti, ha la sfrontatezza e l’istinto del grande improvvisatore, ha la forza di resistere ad ogni avversità anche fisica, come ha dovuto imparare in cella, è dotato di quella forza di volontà che non lo fa mai abbattere e, ora, sa che deve uscire bene di scena e lo fa alla sua maniera: nella cerimonia religiosa dell’addio, il sorprendente e dal sicuro avvenire Bartosz Bielenia esplode nello sguardo esaltato e nel corpo ribelle, cristologicamente a braccia aperte come dire “Crocifiggetemi!” ma anche come segno di gioia, messo a nudo in chiesa mostrando i tatuaggi nel momento esibizionistico della verità. E ride e balla e mostra i muscoli e canta tra i fedeli, sempre solo apparentemente pacifici e osservanti, trascinando anche loro nella sua festa dei saluti finali.


Il terzo lavoro di Jan Komasa ci svela quello che spesso sappiamo e non diciamo, ci riapre l’orizzonte in cui la contraddizione umana e più politicamente l’uso del potere hanno la meglio sulla pacifica ed onesta convivenza, ci offre ancora il volto di un Paese che si dichiara cattolico osservante ma che chiude, come ben sappiamo, le frontiere ai bisognosi, che non concede più di tanto alle libertà individuali femminili, che è più conservatore del Papa, proprio come il regista fotografa quel piccolo paesino tra il verde della campagna. Abbattere i muri e costruire i ponti, è l’insegnamento esortativo di Papa Francesco e quando osserviamo l’interno del muro del carcere vediamo cosa vuol dire la brutalità che abita tra i detenuti, il cui gioco al massacro, con cui inizia e finisce il film, rappresenta la conflittualità nei confini e l’odio verso chi non è alleato o non fa parte del “gruppo”, mentre i legami nascono solo per opportunità contingenti. Quei giovani arrabbiati, delusi dalla vita, che entrano ed escono dal carcere passando da un reato all’altro, non conoscono altro che quel modo per esistere, per essere qualcuno, per essere temuti e rispettati, seppur momentaneamente. Quella ipocrisia vige anche fuori, tra le case sparse lungo le strade tra le colline e i campi coltivati, dove la gente ha il crocifisso in casa e il cuore vuoto.

Opera davvero interessante, quella di Jan Komasa, che, come detto, l’anno seguente ne confeziona un’altra ancora più audace e moderna, rivelandosi come un autore molto intrigante e originale, uno dei nomi nuovi di un est europeo che ha sempre novità stimolanti, che produce un cinema da seguire attentamente, anche grazie a giovani attori, come l’esuberante Bartosz Bielenia che sicuramente vedremo ancora. Il suo Daniel è un ruolo sorprendente, reso vivo e fibrillante per via del talento e della evidente predisposizione per personaggi euforici e comunicativi. Il suo falso prete attira tutta l’attenzione dei fedeli e degli spettatori. La vera novità, comunque, resta il cinema di questo regista, che è materia viva e palpitante, con una visione moderna, rivolta agli aspetti attuali e sempre contemporanei, con l’attenzione – almeno a guardare a questi due ultimi lavori – rivolta a protagonisti giovani che paiono indaffararsi a scalare le ripide pareti del successo con qualunque mezzo, o almeno a raggiungere la meta che sognano, proprio come il nostro Daniel aspirante sacerdote. Perché, come risulta evidente, lui è un delinquente che cerca la Missione per mezzo di un Dio che lo attira, mentre il popolino gretto ha il Cristo dalla sua parte – o almeno così crede – ed invece è lontano da Lui tanto quanto lo sono dalla Carità Cristiana.
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato.” (Luca 18,10-14)






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