Empire of Light (2022)
- michemar

- 26 apr 2023
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 11 mag 2023

Empire of Light
UK/USA 2022 dramma 1h55’
Regia: Sam Mendes
Sceneggiatura: Sam Mendes
Fotografia: Roger Deakins
Montaggio: Lee Smith
Musiche: Trent Reznor, Atticus Ross
Scenografia: Mark Tildesley
Costumi: Alexandra Byrne
Olivia Colman: Hilary
Micheal Ward: Stephen
Colin Firth: Donald Ellis
Toby Jones: Norman
Tom Brooke: Neil
Tanya Moodie: Delia
Hannah Onslow: Janine
Crystal Clarke: Ruby
Monica Dolan: Rosemary Bates
Sara Stewart: Brenda
TRAMA: Hilary è la manager di un cinema alle prese con la sua salute mentale e Stephen è un nuovo impiegato che desidera fuggire dalla città di provincia dove affronta le avversità quotidiane. Insieme trovano un senso di appartenenza e sperimentano il potere curativo della musica, del cinema e della comunità.
Voto 7

L’impero della luce è il regno della magia e del fascino della sala cinematografica. Un luogo dove domina il miracolo della proiezione di un film, miracolo che avviene – come spiega il personaggio del proiezionista in una scena – mediante lo scorrere della pellicola composta da fotogrammi intervallati da una striscia nera. Un difetto della vista umana, facendo passare questi fotogrammi statici alla frequenza di 24 al secondo, fa sì che l’occhio non noti quel buio e dà l’idea di un movimento uniforme, dando continuità al movimento. Un miracolo. Quell’impero della luce è un grande locale sito sul lungomare di Margate, sulla costa settentrionale del Kent, in Inghilterra, l’Empire, un cinematografo ormai in decadenza, un po’ per l’avvento delle multisale, un po’ per colpa della crisi economica che sta colpendo la Gran Bretagna della Thatcher, in un periodo in cui si vanno affermando con forza gli estremismi della destra razzista, appena contrastati dai gruppi giovanili amanti del punk e dello ska. Il locale, di proprietà di Donald Ellis (Colin Firth), ha già ridotto a due le quattro sale originarie e cerca di sopravvivere vendendo popcorn e altri prodotti ai clienti.

Vi lavora un gruppo disomogeneo di dipendenti, disadattati che trovano il loro posto nel mondo solo all'interno di quelle mura, coordinati dalla manager Hilary (Olivia Colman), una donna di mezza età dalla vacua vita, che ha appena superato una malattia psichica curata dal litio. Sorride a tutti, è tranquilla, ma il suo maturo viso non nasconde l’insoddisfazione di una esistenza monotona e solitaria. Per giunta gravata dalle frequenti chiamate in direzione dove Ellis, pur essendo sposato, soddisfa le sue voglie erotiche, situazione che tollera con rassegnata sopportazione. La stantia e inamovibile situazione ha solo una novità, l’arrivo di un giovanotto di colore appena assunto, che stimola immediatamente la simpatia da parte di Hilary. Stephen (Michael Ward), il nuovo arrivato, ricambia subito gli sguardi della donna e quasi per caso si sveglia un’attrazione fisica, inattesa data anche la evidente differenza di età.

È l’incontro di due anime che soffrono. Lui ha già dovuto sopportare diversi atti di razzismo e altri ne affronterà, ha il sogno di iniziare gli studi di architetto ma ha poche speranze ad essere ammesso al college. Lei vive un’esistenza senza prospettive e dedica tutta la sua attenzione al lavoro, affidabile e fedele, anche perché non ha altro nella vita. Ma ciò che era impensabile succede e, galeotto un piccione ferito trovato al terzo piano che curano assieme in una delle sale dismesse, esplode quello che sembra un sentimento, vero e forte, soprattutto sincero. Qualcuno dei colleghi non ci mette molto a scoprire la liaison, vedendoli spesso scendere nel foyer poco prima dell’apertura al pubblico per il primo spettacolo, anzi qualche volta in leggero ritardo sull’orario prefissato. L’equilibrio relazionale, come prevedibile, è precario, sia per la difficoltà a nascondere il legame, sia perché basta un nonnulla per scalfire la stabilità mentale di Hilary, soprattutto quando lei si rende conto che non potrà sempre contare su quell’affetto. Al primo vero contrasto quel problema si ripresenta prepotentemente, proprio in coincidenza della migliore occasione che capita all’Empire: sarà proiettata una delle prime rappresentazioni in Inghilterra del successo mondiale, premiato con gli Oscar, Momenti di gloria, alla presenza del sindaco e di importanti personalità nazionali. Forse perfino di Paul McCartney!

Come raccontato quasi in contemporanea da Steven Spielberg con il suo The Fabelmans, Sam Mendes, a distanza di 23 e di 14 anni dai suoi drammi più importanti (American Beauty e Revolutionary Road) che lo hanno reso celebre e premiato, torna a trame tragiche per ricordare il cinema che era, quello della sua adolescenza, dei tempi gloriosi della Settima Arte, quando, negli anni ’80, iniziava il declino delle sale, ben diverso da quello che si avverte oggi per altre cause. Il film cerca di restituirci l’odore di quei luoghi, le caratteristiche poltroncine, il buio fumoso della sala, la voglia di scoprire un film sapendo poco di esso, il gusto di sedersi accanto ad uno sconosciuto ma di provare le stesse sensazioni, come una famiglia. Ma è anche, e forse soprattutto, un film di uomini allo sbando: il proprietario del locale si confessa incompreso dalla moglie (scusa eterna per cercare il conforto fisico dell’amante) e per questo sfrutta la debolezza della sua manager; il giovane Stephen (che arriva dalle isole di Trinidad) era stato abbandonato dal padre sin da piccolo e vive con la amatissima madre che fa l’infermiera; il proiezionista Norman (Toby Jones) svela di avere un figlio di 22 anni ma che non vede da quando ne aveva 2 e se gli chiedi per quale motivo è andato via di casa non è che trova un pretesto comodo ed egoistico, semplicemente non se lo ricorda più.

Principalmente, però, il film verte su due argomenti: la poco consueta relazione tra i due protagonisti e la grave questione razziale, che il regista non esita e mettere in scena in almeno due episodi violenti, sotto gli occhi spaventati e straniati di Hilary. Gli insulti che rivolgono tre giovani per strada al resiliente Stephen e l’assalto criminale e brutale di un corteo di skinheads che prende di mira il cinema, spaccando le vetrine per accedervi e picchiare selvaggiamente il povero giovanotto, colpevole solo di essere di colore. Cinema d’antan, odori dimenticati, film su pellicola, razzismo, paternità difficili, relazione sentimentale insostenibile. Molti piatti su desco di Sam Mendes, forse troppi, e anche se dedica ovviamente il tempo maggiore alla nascita e al percorso di questo improbabile amore, qualcosa sembra non funzionare completamente. Ma due caratteristiche mi hanno notevolmente attratto: la bellezza e la sincerità del sentimento che nasce tra quelle due persone, sole e impaurite, e l’amore per la proiezione in sala. C’è, per esempio, una bella sequenza nella saletta del proiettore dove Norman spiega con passione a Stephen il fenomeno ottico della pellicola e gli insegna come usare le macchine, come inserire le pellicole e le azioni da svolgere quando un rullo sta terminando. Un affettuoso richiamo a Nuovo Cinema Paradiso? E lo è anche per i riferimenti a storiche pellicole che tutti ricordiamo: Momenti di gloria (come è ovvio), The Blues Brothers, All That Jazz e il meraviglioso Oltre il giardino. Ma soprattutto, un amore difficile può davvero durare? Può vincere ogni resistenza sociale e ambientale? Prima o poi, infatti, data la differente posizione nell’arco della vita, ognuno prenderà la sua strada! Proprio come capiterà (in)felicemente a Stephen.
È la prima volta che Sam Mendes scrive da solo la sceneggiatura (aveva compartecipato alla stesura del solo 1917) e si nota, perché è appena sufficiente, ci sono momenti di stanca, non è sempre efficace, si poteva, in altri termini, far meglio, ma in ogni caso a me il film è piaciuto tantissimo, e non è solo merito della regia. Se Colin Firth viaggia col pilota automatico, con un ruolo sin troppo facile per lui, l’unica vera novità è che si rende antipatico sino all’inverosimile (che stupore sentirlo richiedere senza vergogna un preciso atto sessuale!). Michael Ward è praticamente un giovin attore sconosciuto e se la cava egregiamente: bello, spigliato, sicuro, simpatico, una buonissima presenza e sono curioso di vedere se è stato notato e apprezzato per futuri impegni importanti. Giovanotto interessante. Il capolavoro del film è tutto nelle mani di un’attrice superlativa, che non smette di rivelare tutto il suo talento. Olivia Colman è prodigiosa e ingrandisce a dismisura un personaggio che altrimenti sarebbe stato solo un bel ruolo in mano ad altre. Una ulteriore dimostrazione che sia senza dubbio una delle migliori attrici del nostro tempo. Un vero asso della recitazione. E se Viola Davis è la migliore attrice al mondo a piangere a comando come nessun’altra, lei, qui, non solo lacrima (fateci caso: pochissime lo sanno fare davvero) ma emoziona lo spettatore. Intensa, straordinaria, incredibilmente trascurata per questo film nelle candidature agli Oscar e presa in considerazione solo per i Golden Globe. Incredibile!
Ottimo lavoro, e non è una scoperta, quello della fotografia di Roger Deakins, ormai cercato da tutti i migliori autori, mentre i meno giovani ricorderanno i celebri brani di musica punk e ska di quegli anni. La critica ha bersagliato il film e credo che sia un atteggiamento esagerato: nel mio piccolo, l’ho molto apprezzato e sarebbe bastata una migliore scrittura e avrebbe volato nell’impero, nell’impero della magica luce dei cinematografi. Luogo a cui Sam Mendes dedica con amore l’ultima scena, quando la protagonista, che pur lavorando nel tempio del cinema non si era mai interessata a guardare neanche un film, chiede a Norman di proiettare solo per lei, nella sala ormai vuota, il film di Peter Sellers, rendendosi conto di ciò che si era persa fino a quel momento. Sorridendo con gli occhi colmi di luce e lacrime.
Riconoscimenti
Premio Oscar 2023
Candidatura per la migliore fotografia
Golden Globe 2023
Candidatura per la migliore attrice in un film drammatico a Olivia Colman











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