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Father Stu (2022)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 4 dic 2022
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 3 giu 2023


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Father Stu

USA/SudCorea 2022 dramma biografico 2h4’


Regia: Rosalind Ross

Sceneggiatura: Rosalind Ross

Fotografia: Jacques Jouffret

Montaggio: Jeffrey M. Werner

Musiche: Dickon Hinchliffe

Scenografia: David Meyer

Costumi: Lisa Norcia


Mark Wahlberg: Stuart "Stu" Long

Mel Gibson: William "Bill" Long

Jacki Weaver: Kathleen Long

Teresa Ruiz: Carmen

Aaron Moten: Ham

Cody Fern: Jacob

Malcolm McDowell: monsignor Kelly

Niko Nicotera: Barfly

Carlos Leal: padre Garcia


TRAMA: La storia di padre Stuart Long, prima pugile professionista e poi prete, il cui percorso di redenzione da una vita dominata dall'autodistruzione è stato di ispirazione per tantissime persone.


Voto 6-

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Stuart "Stu" Long è un aspirante pugile con una pessima situazione familiare: suo fratello Stephen era infatti morto a soli sei anni, mentre suo padre Bill si era dato all'alcolismo. L'incontro con Carmen, una ragazza di cui si innamora, lo fa avvicinare al cattolicesimo; tuttavia, dopo un grave incidente in motocicletta – in cui la sua sorte sembrava completamente segnata –, inizia a sentire la chiamata verso il sacerdozio; con la forza della fede Stuart riesce così a rimettere a posto la propria vita e a riavvicinarsi alla sua famiglia.

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Mark Wahlberg si adegua al personaggio protagonista di Stu diventando nella prima parte del film una montagna di muscoli per il ring, il cui pugilato è per lui una passione oltre che un miraggio per diventare un campione. Sbruffone e provocatore, si arrabatta nella vita irregolare che vive con la madre, abbandonata dal marito ubriacone, e cerca di emergere dai bassifondi dello sport di infimo livello. Incontri che lo vedono vincitore diverse volte ma che difficilmente lo porteranno nel giro buono. Più infortuni e ammaccature al corpo che trofei importanti. Il rapporto con il padre Bill (Mel Gibson), diventato violento, è pessimo, anche perché ha lasciato casa e famiglia dopo la pesante perdita del fratellino: la madre Kathleen (Jacki Weaver) è affettuosa e spera che il figlio trovi un futuro migliore e una buona moglie, ma tant’è.

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La vita gli riserva una brutta svolta quando incappa in un grave incidente in motocicletta, da cui ne esce piuttosto malconcio e in fin di vita, ma uscirà dal coma quasi per un miracolo, dopo che aveva appena perso la testa per una ispanica molto religiosa, una cattolica fervente che insegna catechismo. Lui a Dio non ci ha mai pensato e, spaccone com’è, aveva fatto tutto il possibile per attirare le attenzioni di quella bella ragazza, troppo seria per uno come lui. Pur di avvicinarla, aveva promesso di convertirsi e farsi battezzare, tra lo stupore dei suoi genitori e lo scetticismo di quelli messicani. L’incidente e l’essere stato a un passo dalla morte gli aprono gli occhi e, tra l’incredulità generale, compreso la bella Carmen (Teresa Ruiz), dichiara di essere stato miracolato e si convince non solo di accettare il cattolicesimo ma addirittura di voler prendere i voti di sacerdote.

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Una volta rimesso in piedi, entra di prepotenza nel seminario anche se in primo momento viene respinto e non accettato dal vescovo, monsignor Kelly (un sorprendente Malcolm McDowell), ma la sua insistenza gli fa raggiungere la meta: forse l’incontro più vincente della sua vita. E sacerdote lo diventa per davvero, nonostante l’affetto sincero che prova per la sua ragazza, che invece – guarda il caso – cerca di frenarlo per non perderlo. Intanto arriva la peggiore notizia che una persona può mai ricevere, quella di una malattia irreversibile che non lascia scampo: la SLA. Da questo momento il corpo da picchiatore di Mark Wahlberg si trasforme in quella, purtroppo, tipica degli uomini affetti dalla bruttissima malattia e, chissà se con l’ingrassamento programmato dalla produzione cinematografica o per trucco da set, il suo organismo diventa sformato, grasso e floscio. Seduto ormai sulla sedia a rotelle, non perde la forza morale e accetta il male come sacrificio verso quel Dio che aveva fatto scendere Gesù sulla terra per farlo sacrificare sulla croce per i peccati degli uomini. Un altro miracolo lo ha toccato, quello della fede forte e fortificata dalla malattia.

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La regia di Rosalind Ross (partner nella vita del molto più anziano Mel Gibson) è una sceneggiatrice televisiva al debutto nel lungometraggio e non si rivela una grande autrice: il film è piuttosto mediocre e il passaggio chiave del protagonista nella fase di conversione alla religione risulta troppo affrettato e poco convincente. Ma è tutta la narrazione che dà l’idea di essere superficiale, di correre oltre il ritmo necessario per poter raccontare un cambiamento così importante nella vita di un uomo. È una regia ancora acerba e sommaria che prova a tenere sott’occhio l’ingombrante personaggio di Stuart, che Mark Wahlberg cerca di rendere credibile, ora smargiasso, ora pentito e pronto alla omelia che nessuno si aspettava. Ciò che manca per davvero è il percorso, è il tormento: non si può immaginare che da un momento all’altro un agnostico si faccia prete. È vero, la vocazione, come ci viene sempre spiegato, è una chiamata a cui non ci si sottrae ma almeno va esplicata bene con immagini e sequenze, al cinema.

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Si resta straniti da questo film di medio livello, quasi e non proprio sufficiente, ma forse si resta ancora più basiti quando si apprende che tutto questo è accaduto veramente, essendo stato il film tratto da una storia reale. Come è anche vero che nella vita delle persone succede di tutto e non ci si deve mai meravigliare, neanche venendo a conoscere la fine della vita del povero Stu.

Film mai uscito in sala in Italia, ha però almeno una scena molto significativa. Quella in cui il protagonista - nelle vesti da seminarista e accompagnato da un collega apparso sin dal primo istante presuntuoso e primo della classe - visita i detenuti di un carcere per portare una parola di conforto: lì è lui, che proviene dallo stesso mondo emarginato, a saper trovare le giuste parole per connettersi con quegli omaccioni e parlare il medesimo linguaggio, a saper comunicare loro quello che andava detto, senza la retorica del solito sacerdote saccente che conferisce i suoi pensieri ad adulti che non ascoltano. È proprio la differenza tra i due studenti di teologia che si rivela la personalità che si va formando nell’ex pugile, che si dedicherà anima e corpo alla missione che ha sentito come sua.

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Credo insomma che Rosalind Ross, per esporre tutta la storia, abbia trascurato di approfondire gli aspetti più rilevanti, ma nella modestia, comunque, il film si lascia vedere, anche quando lo spettatore può restare poco attratto emotivamente.



 
 
 

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