Foxtrot - La danza del destino (2017)
- michemar

- 17 gen 2020
- Tempo di lettura: 6 min

Foxtrot - La danza del destino
(Foxtrot) Israele/Svizzera/Germania/Francia 2017, dramma, 1h53’
Regia: Samuel Maoz
Sceneggiatura: Samuel Maoz
Fotografia: Giora Bejach
Montaggio: Arik Lahav-Leibovitch, Guy Nemesh
Musiche: Ophir Leibovitch, Amit Poznansky
Scenografia: Arad Sawat
Costumi: Hila Bargiel
Lior Ashkenazi: Michael Feldmann
Sarah Adler: Daphna Feldmann
Yonaton Shiray: Jonathan
Shira Haas: Alma
Yehuda Almagor: Avigdor Feldmann
Ilia Grosz: sorella di Daphna
TRAMA: Michael e Dafna sperimentano il più grande dei dolori quando si presentano dei funzionari dell'esercito che comunicano la morte del loro figlio Jonathan mentre si trovava impegnato in un remoto avamposto. Non trovando sollievo in nulla, Michael cade in una spirale di rabbia prima che una successiva notizia cambi radicalmente l'incedere degli eventi.
Voto 7,5

Tre atti, tre situazioni, tre personaggi principali. Su tutti e tutto il destino. Perché, come afferma lo stesso regista Samuel Maoz – già autore del notevole Lebanon –, il film è una parabola filosofica che cerca di analizzare quel vago concetto chiamato "destino" attraverso la storia di un padre e suo figlio.
I tre atti – di forte attitudine teatrale -, con le differenti situazioni che raccontano, sono composti da una prima parte che inizia con una tragica notizia, la peggiore che può mai arrivare a due genitori, cioè la perdita del figlio militare, quindi una introduzione davvero drammatica, con relative reazioni e sconvolgimenti. Una seconda che ridicolizza la guerra e la vita militare, fatta da operazioni ripetitive spesso noiose ma continuamente elettrizzate da momenti di stress e nervi scoperti, attimi in cui le reazioni – che non possono essere sempre tenute sotto controllo in zone di confine tra nazioni in continuo conflitto, con il pericolo sempre in agguato – sono difficilmente governabili. La terza è un ritorno nell’ambiente iniziale in cui siamo costretti ad intuire e poi avere certezza del drammatico accadimento.

I due bravissimi attori che hanno il ruolo dei genitori (in particolare il noto Lior Ashkenazi, ammirato già nel 2004 in Camminando sull’acqua) riescono nel primo atto a trasmetterci con molto realismo lo sconvolgimento psicofisico che un padre e una madre provano al momento della notizia che non vorrebbero mai sentire a proposito di un figlio che presta servizio militare in una nazione perennemente in guerra con i confinanti. La situazione di continuo allarme in cui vive il popolo israeliano è per noi occidentali una condizione di vita sicuramente insostenibile ma loro sono così abituati che quasi non ci fanno più caso. Ovviamente questa mia osservazione è valida specularmente anche per i vicini palestinesi, la tristemente nota Striscia di Gaza e zone limitrofe. Vale per tutti, anzi. Un incessante stato d’animo in costante ansia, specialmente per chi ha familiari e conoscenti in zone militarmente presidiate, continuamente in pericolo di vita. Se la mamma, nella fattispecie del film, viene tenuta sotto controllo con la sedazione, assistiamo invece alla nevrastenica reazione del capo famiglia, Michael Feldmann, il quale dopo i primi contraccolpi non facilmente sopportabili cerca di sapere di più del corpo del figlio Jonathan. Questi primi minuti del film si rivelano drammatici alla pari dei tanti film antibellici che conosciamo, che ci mostrano l’assurdità e della contemporanea stupidità della guerra. Ma in conclusione di questa prima parte arriva inaspettatamente una notizia altrettanto sconvolgente e per fortuna altrettanto rincuorante.

Con uno stacco perentorio Maoz ci catapulta nel luogo dove Jonathan presta servizio: un assurdo non-luogo che comprende una strada polverosa e fangosa nel bel mezzo del deserto, una sbarra che ferma i pochi mezzi che transitano e un container sempre più in pendenza che affonda nel fango circostante e che contiene le brandine dove riposano i quattro giovani che compongono il presidio. Quattro giovani dalla faccia innocente, che chiacchierano del più e del meno, che cercano di far passare oziosamente le lunghe giornate a far la guardia a qualcosa che non si vede. Tranne qualche auto, non si arriva alcuna persona: l’unico privilegiato che fanno transitare senza controlli è un dromedario che fa avanti e indietro, come lo scandire inesorabile del tempo infinito a disposizione. Come un metronomo. È qui e in questo assurdo secondo atto che il regista offre il meglio del suo senso buffo e grottesco offrendoci una situazione che sembra derivata dall’eterno esempio di Samuel Beckett e del suo celeberrimo Godot: i quattro ragazzi aspettano e aspettano, la noia li travolge, non vedono alternative al destino che li ha scaraventati in un posto dove non esiste nulla. La serie di gags che sciorinano è come un film muto alla Buster Keaton, dove i gesti e gli sguardi contano più delle parole. È qui che assistiamo alla spiegazione da parte di Jonathan dei passi che caratterizzano il foxtrot: un passo a destra, uno indietro, una a sinistra ed infine il ritorno al punto di partenza, tutto ballato al ritmo travolgente del mitico Quel Rico El Mambo dell’ineguagliabile Perez Prado. È la sequenza più grottesca, più provocante, più antimilitaresca dell’intero film. Vedere Jonathan che balla con trasporto il foxtrot trattando il suo fucile automatico come fosse la sua dama, girandosela attorno e avvicinandosela al corpo in maniera voluttuosa è l’apice della satira contro la guerra e le armi. Un ballo che con forte senso metaforico dimostra come gira e rigira, proprio come i movimenti, si torna sempre al punto di partenza, non si va mai oltre: la guerra, i morti e i feriti di un popolo che odia un altro popolo non porta da alcuna parte. Se non alla distruzione dell’umanità. Lebanon era asfissiante, ma anche questo film, a modo suo, è la dimostrazione dell’aria che manca all’uomo in guerra, perché lo fa anche contro se stesso.

Come un incantesimo, nel terzo ed ultimo atto torniamo in casa Feldmann, stavolta in pieno scontro coniugale, dove lei non sopporta più la presenza del marito e tutti gli oggetti che ricordano il caro Jonathan. Ma non era sopravvissuto alla missione? Perché Daphna è così in astio verso Michael? Provano un sordo dolore differente: lui intristito e consapevole di non aver goduto appieno la presenza del figlio maschio, di averlo trattato come potesse averlo per sempre; lei rancorosa verso il marito per non averlo saputo tenere al sicuro. Eppure, nessuno dei due ha colpa: è il cammino inesplorato, non conosciuto e autonomo del destino che ci colpisce quotidianamente. È una tragedia greca in cui l'eroe crea la propria punizione e lotta contro chiunque cerchi di salvarlo. È chiaramente all'oscuro dell'esito che produrranno le sue azioni. Anzi, sta facendo la cosa che ritiene più logica e giusta. Ed è questa la differenza tra una coincidenza fortuita e una coincidenza che sembra essere frutto del destino. Il caos si ricompone. La punizione corrisponde perfettamente alla colpa. C'è qualcosa di classico e ciclico in questo processo. E c'è sempre una certa ironia associata all'idea di destino. Così, intelligentemente, il regista spiega il suo dramma, anche personale. Perché come ha raccontato: “Quando mia figlia maggiore andava al liceo, non si alzava mai in orario e per non arrivare tardi a scuola mi chiedeva di chiamare un taxi. Questo suo vizio ci costava un bel po' di soldi e mi sembrava un gesto di maleducazione. Così una mattina mi arrabbiai e le dissi di prendere l'autobus, come tutti gli altri. Se era quello il motivo per cui arrivava tardi, sarebbe arrivata tardi e basta. Forse con le maniere forti avrebbe imparato a svegliarsi prima. Il suo autobus era il numero 5. Mezz'ora dopo che era uscita di casa, vidi su un sito di notizie che un kamikaze si era fatto esplodere sulla linea 5 e che c'erano state decine di morti. La chiamai subito al cellulare ma le linee erano sovraccariche. Poi, mezz'ora dopo, rientrò a casa. Era in ritardo e aveva perso l'autobus che era saltato in aria. L'aveva visto lasciare la fermata ed era salita su quello successivo. Oggi mi reputo molto fortunato ad avere ancora le mie figlie.”

Il dramma umano di una famiglia e il destino amaro di un giovanotto nel meglio della sua gioventù dominano questo bellissimo film, che tratta la guerra e lo stato di eterno all’erta di alcuni popoli vicini a noi, della stupidità – come la definì Ermanno Olmi – della guerra, del destino inteso come ineluttabile dal senso teatrale greco, delle scelte che compiamo ogni giorno. La attenta regia di Samuel Maoz, unitamente alla sua perfetta sceneggiatura confezionata con dialoghi efficaci e penetranti, che spiegano efficacemente i momenti psicologici dei vari stati d’animo e delle situazioni che si vengono a creare, oltre alla ottima resa delle immagini che spesso non hanno bisogno di parole, tutto ciò ne fa un bellissimo film, che ha il suo ritmo, non ha fretta, deve insinuarsi lentamente nella mente per essere capito quale opera sarcastica e grottesca che ha il solo scopo di irridere la guerra e il fato, quello provocato e quello predestinato. Notevoli in più occasioni sono le inquadrature dall’alto, esplicative sequenze degli spazi ristretti come menti in trappola degli eventi, come impotenza dell’uomo verso il destino non manipolabile. Di grande effetto.
Una storia con un messaggio di valenza locale e universale. La storia di due generazioni: la seconda e la terza generazione di sopravvissuti all'Olocausto, ognuna delle quali subisce un trauma durante il servizio militare. C’è una particolare inquadratura nel film, in cui si vede lo schermo di un computer portatile, su cui appare l'annuncio funebre, e al suo fianco un cesto di arance. Questa immagine racconta la storia di Israele in quattro parole: arance e soldati morti.
E poi… il destino può avere la forma di un dromedario?






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