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Fuocoammare (2016)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 13 feb 2019
  • Tempo di lettura: 4 min

Aggiornamento: 29 mar 2019


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Fuocoammare

Italia/Francia 2016, documentario, 1h54'


Regia: Gianfranco Rosi

Soggetto: Carla Cattani

Sceneggiatura: Gianfranco Rosi

Fotografia: Gianfranco Rosi

Montaggio: Jacopo Quadri

Musiche: Stefano Grosso


con Pietro Bartolo, Samuele Caruana, Maria Costa, Mattias Cucina, Giuseppe Fragapane, Francesco Mannino, Francesco Paterna, Samuele Pucillo, Maria Signorello


TRAMA: L'isola di Lampedusa, il punto più a sud d'Italia, dal 1990 è diventata il luogo di massiccio approdo degli immigranti clandestini provenienti dall'Africa. In poco più di vent'anni, oltre 20 mila persone sono annegate durante la traversata per raggiungere quella che per molti è la porta dell'Europa e che dovrebbe permettergli di fuggire dalla guerra e dalla fame. Qui vive Samuele, ha 12 anni, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola.


Voto 7

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Il 3 di ottobre è la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione e quando pronunciamo queste parole il nostro pensiero non può fare a meno di andare anche con la memoria della vista ad una isola che emerge al centro del basso Mediterraneo, tra l’Italia e l’Africa. Come precisa nell’incipit il film documentario di Gianfranco Rosi, Lampedusa dista 70 miglia dalle coste africane e 120 da quelle italiane: sembra che sia lì come una boa nel mare aperto a cui aggrapparsi momentaneamente, per far riprendere il fiato e dare un barlume di speranza a chi con estrema fatica sta attraversando il mare blu con tanta voglia di iniziare a vivere. Ma altrove. Non nella casa dove è nato, ma in un posto del mondo dove sarà possibile respirare senza il terrore di essere maltrattati o peggio ancora essere torturato, abusato, ucciso.

Usualmente il regista di un documentario si reca nei posti di cui vuol mostrare un popolo o un luogo e filma cercando di illustrare allo spettatore lo scopo del suo occhio, facendolo partecipe degli avvenimenti ordinari, della vita quotidiana. Quasi sempre questo ha l’obiettivo, quando non è scientifico, di farci parteggiare per un popolo, un’usanza, esaltando alcuni particolari. La camera da presa di Gianfranco Rosi invece pare asettica: si accende su quest’isola ventosa e invernale e punta sui due soggetti che faranno da punto di riferimento.

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Il primo è un ragazzino di 12 anni vivace e sveglio, Samuele, figlio ovviamente di pescatore, probabilmente mestiere che anche lui farà da grande. Va a scuola, ama costruirsi fionde con il suo amico e fa tante domande al padre, incuriosito dalle cose che succedono in mare. Nell’occasione di una visita oculistica scopre che il suo occhio sinistro è clinicamente “pigro”, cioè lavora poco e ciò gli sta causando una perdita notevole di diottrie. Infatti lo chiude sempre quando gioca con il suo lanciasassi per prendere la mira. Come fare a non pensare che questa parziale cecità sia una chiara metafora di quella che affligge l’Europa tutta, così falsamente interessata e partecipe del continuo flusso di migranti che sbarcano (quando ci riescono) sulle coste rocciose di Lampedusa? Il continente ne viene giornalmente informato ma gira la testa altrove, anzi alza muri, dimentico dei muri che hanno già fatto male nel passato.

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Il secondo personaggio isolano che domina la visione è un dottore, Pietro Bartolo, il quale oltre che curare gli abitanti si occupa in prima persona delle migliaia di migranti che arrivano: è lui che per primo da uno sguardo alla loro salute e li smista per esami più approfonditi a seconda del caso. Pietro è l’accoglienza fatta persona e quasi non riflette su cosa sta facendo, ma lo fa e basta, semplicemente perché è convinto sia un suo dovere sia come medico sia come uomo. Sentirlo parlare quando descrive quello che vede e quello che fa tutti i giorni è l’essenza della pietà umana. È il colmo quando si definisce impotente davanti alla tragedia continua che è costretto a vedere quotidianamente: come può sentirsi in colpa per tutte le vite che non è riuscito a salvare? come può sentirsi responsabile per tutti quei corpi senza vita che i soccorritori portano a riva chiusi in sacchi di plastica? per quelle donne gravide che hanno partorito in mare e che lui scopre con il neonato morto ancora attaccato al cordone ombelicale? come può un uomo solo sentire tutto il peso di questa tragedia come fosse colpa sua? In realtà, noi tutti lo sappiamo bene, Pietro Bartolo rappresenta il resto del mondo che dovrebbe prendersi carico della migrazione di centinaia di migliaia di esseri umani che hanno bisogno. Che hanno bisogno.



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Non ci sono riprese agghiaccianti che possono spaventare lo spettatore e non c’è spazio alla inutile retorica. È fuori luogo. Rosi ha preferito mostrare il minimo, preferendo primi piani sui volti sconvolti e spaventati pieni di lacrime e facendo parlare un giovane nero che tra i canti dei suoi compagni di sventura chiede al mondo intero perché tutto questo stia accadendo. Perché devono soffrire tanto. Perché l’umanità è diventata disumana.


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Come afferma il noto montatore Jacopo Quadri, "Un film necessario, in cui sento di nuovo che il montaggio ha avuto una parte importante, strutturato su più livelli. Montaggio che è stato realizzato in buona parte a Lampedusa. Quindi, come spesso accade per i documentari, è diventato anche un viaggio mio personale, che mi ha fatto crescere umanamente."

Come l’obiettivo dello straordinario fotografo Sebastião Salgado (celebrato dal meraviglioso documentario Il sale della terra diretto da Wim Wenders  con il figlio del fotografo Juliano Ribeiro Salgado) ci ha portati a guardare in silenzio la vita che pulsa lontano da noi occidentali, così Gianfranco Rosi, che è stato un anno intero sull’isola per studiare e capire la vita di Lampedusa e dei lampedusani e di chi vive pescando e di chi vive soccorrendo, ci mostra quasi in silenzio ciò che avviene tutti i giorni sulle nostre coste più a sud. Perché c’è sempre qualcuno più a sud di ognuno di noi.



 
 
 

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