Ghost Dog - Il codice del samurai (1999)
- michemar

- 24 set
- Tempo di lettura: 7 min

Ghost Dog - Il codice del samurai
(Ghost Dog) Francia, Germania, USA, Giappone 1999 noir drammatico 1h56’
Regia: Jim Jarmusch
Sceneggiatura: Jim Jarmusch
Fotografia: Robby Müller
Montaggio: Jay Rabinowits
Musiche: RZA
Scenografia: Ted Berner
Costumi: John Dunn
Forest Whitaker: Ghost Dog
John Tormey: Louie
Cliff Gorman: Sonny Valerio
Isaach de Bankolé: Raymond
Tricia Vessey: Louise Vargo
Frank Minucci: Big Angie
Richard Portnow: Frank “il bello”
Henry Silva: Ray Vargo
Vince Viverito: Johnny Morini
Victor Argo: Vinny
Joseph Rigano: Joe Rags
Camille Winbush: Pearline
TRAMA: Ghost Dog con i suoi amati piccioni vive in una capanna posta in cima ad un edificio. La sua giornata è scandita dall’osservanza delle regole d’onore di un antico codice di samurai e dall’assolvimento del suo lavoro di killer a pagamento al servizio del mafioso Louie.
VOTO 8

La tecnica dell’uomo è molto semplice e rituale. Quando gli arriva l’ordine da parte del mafioso, che ritiene il suo capo perché a lui deve la vita, di uccidere qualcuno, con un biglietto legato alla zampa di uno dei piccioni che lui stesso alleva, si attiva, esegue e poi invia al mittente, Louie (John Tormey), un altro volatile per informarlo del lavoro portato a termine. Come sempre in modo perfetto, senza lasciare traccia. Quindi non hanno mai contatto ravvicinato. Per una serie di disguidi succede però che un incarico non viene rispettato per via di una complicazione e Ghost Dog (Forest Whitaker) diventa il bersaglio di una caccia all’uomo. Di questo film “religioso” si potrebbe iniziare a scrivere come un qualsiasi noir, o thriller, o gangster, ma non si farebbe giustizia, anche e soprattutto per la spiritualità che lo ammanta e per restare all’altezza del lavoro dell’autore e dell’atmosfera che lo plasma ne va studiata e recensita la precisa mentalità che lo caratterizza. Questo impone una modalità di scrittura adeguata, uno stile forbito e rispettoso. Un libello, quasi, non una recensione comune. Perché il codice di Ghost Dog è un’elegia che vive e poi muore in silenzio, con lo stile che lo ha sempre contraddistinto. Ma in pace con se stesso, assistito solo dalle uniche due persone a cui si era legato negli ultimi tempi: il gelataio con cui aveva confidenza e la ragazzina con cui aveva uno scambio di letture.
La meditazione sulla morte inevitabile dovrebbe essere praticata ogni giorno. Bisogna immaginare di essere trafitto da frecce, fucili, lance e spade, travolto dalle onde, gettato nel fuoco, colpito da fulmini, scosso da terremoti, caduto da mille piedi, morto di malattia o suicida alla morte del proprio signore. Ogni giorno, senza fallo, bisogna considerarsi già morti. Questa è la sostanza della via del samurai.
Nel cuore di una città senza nome, dove le antenne si stagliano come lance e i piccioni sorvegliano il cielo, vive un uomo che non appartiene a nessun tempo. Ghost Dog non è un personaggio: è un principio incarnato, un’idea che cammina, un codice che respira. Jim Jarmusch lo scolpisce nel silenzio, lo avvolge nel vento, lo lascia parlare solo quando le parole sono necessarie. Il resto è gesto, è ritmo, è contemplazione, sguardi penetranti. Per essere all’altezza (e lo è, perbacco!), Forest Whitaker non lo interpreta: lo indossa non come un abito ma come una pelle. Il suo volto è una maschera di quiete, un paesaggio interiore dove ogni emozione è trattenuta, ogni decisione è già stata presa. Non c’è conflitto in lui, solo coerenza. È un samurai cresciuto nella dottrina dei samurai, che non cerca gloria né redenzione. La sua fedeltà è cieca, ma non ottusa: è una questione di scelta, è disciplina, è accettazione del destino.
La città che lo circonda è un mosaico di epoche e stili, un patchwork di riferimenti che si annullano a vicenda. Le auto sembrano provenire da decenni diversi, i gangster parlano come caricature, le case sono gusci vuoti. È un mondo che ha perso il senso del tempo, e quindi anche quello dell’onore. In questo vuoto, lui si muove come un monaco in un tempio profanato: non per combattere, ma per custodire. In maniera ascetica, in questo limbo che ha scelto, il suo rifugio è un capanno sul terrazzo di un edificio, affiancato alla grande gabbia affollata dai suoi piccioni ubbidienti e silenziosi. Lì si allena con la sua katana, lì legge l’Hagakure*, non come un manuale di guerra, ma come un vangelo personale. Ogni precetto è una stella fissa, ogni frase è una lama che taglia il superfluo. Il codice del samurai non è nostalgia: è resistenza. È un modo per restare umani in un mondo che ha smesso di esserlo.
*[Hagakure, (葉隠, letteralmente “nascosto tra le foglie”) è molto più di un semplice manuale: è una meditazione sulla vita e sulla morte, un codice etico che distilla lo spirito del bushidō (il codice) in forma di aforismi, racconti e precetti. Anche parabole. Composto all’inizio del XVIII secolo da Yamamoto Tsunetomo, ex samurai del clan Nabeshima, e trascritto dal suo discepolo Tashiro Tsuramoto, l’opera nasce in un’epoca di pace, quando la figura del samurai stava perdendo la sua funzione bellica e diventava quindi simbolica.]
Non si deve cercare altro nella Via del Samurai. Lo stesso vale per qualsiasi altra Via. Se si comprende questo, si può ascoltare ogni Via e accordarsi sempre più con la propria.
La colonna sonora di RZA non accompagna: è dentro la narrazione e nelle immagini. Riempie, completa, spiega. I ritmi hip-hop non sono decorativi, ma tengono il moto del protagonista. Ogni nota è un passo, ogni ritmo è un respiro. La musica non commenta l’azione: la precede, la prepara, la purifica. È come il suono del flauto nel mitico teatro Nō: non serve a intrattenere, ma a evocare. E così, mentre Ghost Dog si muove tra le ombre, il film diventa una danza lenta, una cerimonia funebre per un mondo che ha dimenticato il significato della parola “onore”. I suoi omicidi non sono atti di violenza, ma di coerenza. Non uccide per odio, né per vendetta: uccide perché è stato chiamato e il samurai risponde sempre. Di conseguenza, il suono del commento musicale diventa mezzo di meditazione. Deve farlo per onorare colui che ritiene il padrone, salvato da questi quando, da giovane, lo stavano ammazzando.
Attorno a lui si muovono figure che non parlano la sua filosofia, ma ne condividono la solitudine. Il gelataio haitiano Raymond (Isaach de Bankolé) comunica solo in francese, non conoscendo la lingua del posto, e incarna una forma di comprensione profonda, verbale alla sua maniera. L’altro gli risponde in inglese, ma come se parlassero tra sordi si capiscono alla perfezione. È l’amico che non giudica, che ascolta, che offre un gelato come gesto rituale. Poi c’è la bambina che legge libri, Pearline (Camille Winbush), persino il Rashomon che lui le presta (che tenerezza!) e che intuisce senza chiedere spiegazioni. Il cane randagio, che compare ogni tanto, lo osserva con occhi tristi e aspetta come un discepolo silenzioso. Sono frammenti di un mondo parallelo, dove la parola è superflua e il gesto è tutto. Ghost Dog si relaziona solo con loro ma nessuno lo comprende davvero, perché lui non cerca comprensione. Cerca solo di vivere secondo il suo codice, fino alla fine. E quando la fine arriva, non c’è tragedia, né sorpresa. C’è solo accettazione e sorriso.
Come il cestino da pranzo intrecciato usato una sola volta nelle passeggiate campestri: al ritorno viene calpestato. Così è la fine.
Jim Jarmusch ha riconosciuto esplicitamente l’influenza di Jean-Pierre Melville e in particolare del film Frank Costello faccia d’angelo (Le Samouraï, 1967). L’omaggio è tanto stilistico quanto tematico: entrambi i protagonisti sono killer solitari, mossi da un codice personale che li separa dal mondo circostante, immersi in una ritualità che trasforma la violenza in gesto contemplativo. Come da lui detto, è stato una fonte d’ispirazione diretta non solo per l’atmosfera rarefatta e il minimalismo espressivo, ma anche per la figura del protagonista come “outsider spirituale”. Whitaker, come Delon, incarna un personaggio che vive secondo regole invisibili in un mondo che non le riconosce più. Inoltre, Jarmusch ha ampliato quell’archetipo melvilliano con riferimenti all’Hagakure, alla cultura hip-hop, e a una dimensione quasi mistica della solitudine. Se Melville costruiva un noir esistenziale, Jarmusch lo trasforma in un sutra* urbano, dove il codice non è solo morale, ma poetico. A proposito della violenza contenuta, il regista ha anche affermato che è semplicemente un riflesso della storia degli esseri umani e, per i vari filmati dei cartoni animati che scorrono almeno per sei volte nella trama, ha spiegato che sono inseriti perché a lui piacciono, come anche l’idea che gli adulti li guardino. Glieli fa vedere anche ai gangsters, seduti davanti alla TV.
[*Sutra è un tipo di testo sacro o didattico, tipico delle tradizioni religiose dell’India, in particolare dell’induismo, del buddhismo e del giainismo. Il termine sanscrito sūtra (सूत्र) significa letteralmente “filo” o “corda”, nel senso di “filo conduttore” o “guida sintetica.]
Tra il “Rashomon” di Kurosawa e il film di Melville, l’opera di Jarmusch mantiene un andamento “jazz” dall’inizio alla fine, con acuti di solisti di gran classe (a cominciare proprio da un grande Whitaker, che pare in continuazione con il bellissimo Bird del 1988 di Eastwood) e momenti “free” in cui il regista indipendente americano si diverte a mescolare dramma e umorismo, filosofie orientali e pragmatismi statunitensi. Tanto umorismo, fino a rompere l’atmosfera noir in risate dello spettatore. Ottima la colonna sonora di matrice rap (opera di Rza, leader del gruppo Wu-Tang Clan), ammaliante ed erotica l’inedita “femme fatale” Tricia Vessey e straordinari i camei di Henry Silva (decano dei polizieschi all’italiana anni ‘70), Victor Argo e Isaach De Bankolé, il gelataio, uno dei totem del regista.
Più volte, nel corso della visione, ci si accorge che non è un film da spiegare come sto facendo modestamente io, ma da ascoltare e guardare. È assimilabile ad un poema zen travestito da gangster movie. È il racconto di un uomo che ha scelto di essere coerente in un mondo incoerente. E in quella scelta, c’è tutta la sua bellezza. Ora, capisco se una parte del pubblico lo può trovare troppo lento in alcuni frammenti o pesante, ma questo non è un film come gli altri e se si entra nella mentalità e nel giusto climax se ne resta incantati.
Forest Whitaker stratosferico. Jim Jarmusch gran direttore. Film che rapisce nella sua poesia, libera e personalissima.
Quando si è presa la decisione di uccidere una persona, anche se sarà difficile riuscirvi seguendo un percorso rettilineo, indugiare in lunghi accerchiamenti non avrà efficacia. La regola del samurai impone l’immediatezza: è meglio attaccare frontalmente.


































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