Gli spostati (1961)
- michemar

- 23 mag
- Tempo di lettura: 5 min

Gli spostati
(The Misfits) USA 1961 dramma 2h5’
Regia: John Huston
Soggetto: Arthur Miller (racconto)
Sceneggiatura: Arthur Miller
Fotografia: Russell Metty
Montaggio: George Tomasini
Musiche: Alex North
Scenografia: Stephen B. Grimes, Bill Newberry
Costumi: Jean Louis
Marilyn Monroe: Roslyn Taber
Clark Gable: Gaylord Langland
Montgomery Clift: Perce Howland
Eli Wallach: Guido
Estelle Winwood: Mrs. Murphy
Thelma Ritter: Isabelle
Kevin McCarthy: Raymond Tabor
TRAMA: Roslyn è una bellissima donna che ha appena divorziato. Un giorno incontra due vecchi amici, Guido e Guy, che la invitano a passare alcuni giorni di vacanza in una casa di campagna. I due inaspettatamente si innamorano di lei.
VOTO 8

Passato alla storia, purtroppo, come l’ultima apparizione sul set di Marilyn Monroe e Clark Gable (venuti a mancare la prima circa un anno dopo, il secondo fece appena in tempo a terminare le riprese), è un film di John Huston su sceneggiatura scritta e riscritta dal terzo marito di lei Arthur Miller e realizzato nel pieno del loro divorzio, dove l’attrice ha a disposizione un ruolo drammatico da lei disperatamente atteso e perseguito. Marilyn è Roslyn (nome assonante, eh?), una ex ballerina temporaneamente trasferitasi a Reno, nel Nevada, dove si può ottenere facilmente un divorzio dopo una residenza di almeno sei settimane. Non c’è nessuna performance sul palcoscenico, qui, ma in una sequenza di grande portata simbolica si scorgono, appese all’interno dell’anta di un armadio, riconoscibilissime le sue foto dei primi anni ‘50, durante il suo periodo di pin up. Guido, il personaggio interpretato da Eli Wallach, vorrebbe guardarle con attenzione, ma Roslyn chiude ripetutamente l’anta, allontanandole dalla vista, ricacciandole nel passato, e derubricandole a uno scherzo di Gay.
È un’opera terminale e ancora una volta diventa impossibile scindere il film dal suo contesto e dalla sua storia: oltre all’ultima interpretazione sia di Monroe sia di Clark Gable (la star preferita di Norma Jeane bambina, appositamente da lei scelta perché “era così che m’immaginavo mio padre”), è anche uno degli ultimi lavori di Montgomery Clift, il cui personaggio Perce, in una telefonata alla madre, fa riferimento diretto al terribile incidente che qualche anno prima gli aveva modificato i connotati. Ebbe una lavorazione travagliata, segnata dal caldo insopportabile del deserto, difficoltosissima per una Monroe oppressa dall’esaurimento nervoso e dalla depressione, dai dolori di una fastidiosissima malattia e dalla fine del matrimonio con lo scrittore, spiata ossessivamente dai tabloid e dalla stampa (molto interessati ai suoi ritardi sul set e alla sua settimana d’ospedalizzazione, ma silenti sulle ore passate da Huston al tavolo da gioco e sui debiti da lui accumulati che portarono la produzione sull’orlo della bancarotta).
Monroe, Gable, Clift, Wallace (ma anche la grande Thelma Ritter, in un altro dei suoi straordinari ruoli da non protagonista) sono i relitti acciaccati di un mondo in dissoluzione, di uno showbusiness, qui esemplificato dallo sfruttamento operato dal circuito dei rodei, che risucchia, illude, consuma e abbandona. Sono, evidentemente, i cavalli, bellissimi e selvaggi, presi al lazo, addomesticati con violenza, e l’urlo d’insopportabile disperazione in cui esplode Roslyn nella scena apicale, in cui sembra espellere dal suo corpo e dalla sua anima il senso d’angoscia, urgenza e impotenza accumulato in anni e anni di carriera.
La bella e ingenua Roslyn, appunto da poco divorziata, per mezzo dell’amica lsabelle (Thelma Ritter) stringe amicizia con due uomini: Gay (Clark Gable), un cowboy anche lui divorziato, e Guido (Eli Wallach), meccanico e aviatore. Respinti gli approcci di quest’ultimo, Roslyn sente nascere in sé una viva simpatia per il cowboy che, dal suo canto, non è insensibile al fascino della giovane donna, di cui riconosce e apprezza la profonda sensibilità e umanità. Inizia così una relazione fra i due, finché l’altro non propone all’amico di prender parte a una caccia ai cavalli selvaggi. La brutalità di un rodeo e le ferite che Perce (Montgomery Clift), uno dei concorrenti, subisce durante la gara, sconvolgono l’animo della donna: ai suoi occhi Gay appare ora sotto un aspetto diverso, cinico, rozzo e istintivamente violento. La reazione della donna è immediata quando Guido e Gay, dopo un’estenuante caccia, riescono a catturare una cavalla selvaggia con un puledro oltre che uno stallone. Inoltre, Guido fa il doppio gioco per mostrare ai due l’aspetto peggiore uno dell’altra.
Come fece ben notare a suo tempo l’infallibile Gianni Amelio in qualità di critico, la storia di sembra oggi solo un pretesto, l’occasione unica e tragica di un documentario sui suoi protagonisti. Fu l’addio di tre grandi figure del nostro immaginario cinematografico in una tremenda atmosfera che si ammantava sul set e nel copione, come una predizione. Il più crudelmente lucido è Arthur Miller, (che Amelio definiva gelido drammaturgo intellettuale), autore di un copione ai limiti dello psicodramma, che costruisce il personaggio di Roslyn sulle nevrosi della donna che ha appena smesso di amare, infliggendole momenti insostenibili, che solo l’immensa sensibilità della Monroe sa trasformare in poesia recitativa. Incredibilmente, “Per me è finita” dice il Gay di Gable dopo aver domato e poi liberato il cavallo selvatico, “Devo trovare un’altra via, se ancora ce n’è rimasta una”. Da brividi!
Se il film è quella grandiosa tragedia portata sullo schermo che si fa ammirare, è anche il risultato di due personaggi enormi ma distanti e così diversi. Il drammaturgo, scrittore e sceneggiatore Miller era il perfetto prototipo di intellettuale irritabile, il regista Huston invece estroverso, in perpetuo movimento alla ricerca di panorami ampi e feroci adatti alla sua visione di cinema grandioso, impetuoso, lacerante. Non si dimentichi quello che affermò dopo aver letto lo script: “L’ho letto come un pugile che tiene la guardia alzata per proteggersi il viso, ma improvvisamente ho ricevuto un colpo alla bocca dello stomaco.”
Un tardo western, come si suol dire, mito che finiva con cowboy sopravvissuti: “Sono gli ultimi uomini veri, anche se sono infidi come lepri”, dice la Isabelle di Thelma Ritter) e poi – da inorridire - cavalli selvaggi usati come mangime per animali domestici. Forse era l’istantanea di una società dove i cani mangiavano i cavalli e questa idea fa balenare cosa fosse l’America e, chissà, anche quella di oggi.
Un set di giganti, della scrittura, della regia e della recitazione, un mondo di figure ingombranti dove però attrici di razza come la mai protagonista Ritter sapeva districarsi e ritagliarsi uno spazio proprio e farsi apprezzare. Sì, si può parlare anche di Clift e Gable, ma questo film rimane nel cinefilo per la morbidezza materiale e per la fragilità psicologica di un’attrice che, per chi scrive, era più brava di quello che si dice, perché l’attrazione fisica oltrepassava la fama. Ma lei, Marilyn, come attrice, era superlativa e in questa occasione ne detta un’ampia prova.
Premi e riconoscimenti? Difficili per un film di questo tono e contenuto. Fu un’opera “troppo” per avere il successo popolare, ma per fortuna è un film che si fa amare ancora oggi.










































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