La trama fenicia (2025)
- michemar

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La trama fenicia
(The Phoenician Scheme) Germania, USA 2025 commedia/avventura 1h41’
Regia: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson
Fotografia: Bruno Delbonnel
Montaggio: Barney Pilling
Musiche: Alexandre Desplat
Scenografia: Adam Stockhausen
Costumi: Milena Canonero
Benicio del Toro: Zsa-zsa Korda
Mia Threapleton: suor Liesl
Michael Cera: Bjorn Lund
Tom Hanks: Leland
Bryan Cranston: Reagan
Riz Ahmed: principe Farouk
Jeffrey Wright: Marty
Scarlett Johansson: Hilda
Richard Ayoade: Sergio
Rupert Friend: Excalibur
Hope Davis: madre superiora
Benedict Cumberbatch: zio Nubar
Bill Murray: Dio
Charlotte Gainsbourg: prima moglie
Willem Dafoe: Knave
Mathieu Amalric: Marseille Bob
F. Murray Abraham: profeta
TRAMA: Sopravvissuto a un incidente aereo per la sesta volta nella sua vita, il magnate internazionale Zsa-Zsa Korda tenta di ricucire i rapporti con sua figlia Liesl, nel frattempo diventata suora, che non vede da troppo tempo.
VOTO 5

Se ci si sintonizza mentalmente su un qualsiasi ultimo film di Wes Anderson si sa in anticipo che sullo schermo saranno proiettati immagini e inquadrature geometriche e simmetriche, personaggi fantasiosi vestiti con abiti inusuali in atteggiamenti spiazzanti che si esprimono con linguaggio singolare e in dialoghi tra loro fitti e veloci, in un ambiente pienamente ipercolorato dai toni pastello. Spesso con ferite procurate dalle cause più bizzarre o da situazioni paradossali. Però, sempre pacati, quasi per giustificare l’accaduto anche se appare inverosimile. Come mi è capitato più volte di dire, i film del regista texano sono composti da personaggi-figurine, come una raccolta variopinta di persone che si fa fatica a pensare credibili, anzi, decisamente frutto solo della sua vivace fantasia. Uno scrittore di favole fiabesche, o di fiabe favolose, in pratica, in cui cosa accadrà loro è imprevedibile. Di certo fantastiche.
Insomma, la sorpresa, oramai, non c’è più, e da tempo. L’eleganza di Anderson non è in discussione: basta un accenno di tappezzerie, divani, pareti e finestre sul nulla, dai colori che vanno dal turchese al mandarino per capire che siamo nel suo territorio. I suoi film sono oggetti da guardare, letteralmente, inquadratura dopo inquadratura (l’apertura è un piccolo gioiello), immersi in un’estetica che è ormai marchio assoluto del suo cinema. Le simmetrie ipnotizzano, le geometrie rassicurano, i costumi, firmati da Milena Canonero (sua costumista per sei volte), e non potrebbe essere altrimenti, folgorano. Anche la ridondanza, con lui, diventa una forma di piacere. Ma la sorpresa non c’è più. Verrebbe anche da dire che sta diventando scontata.
I suoi film, quindi, restano sempre uguali a se stessi: non cambiano davvero, oscillano tra il più e il meno “riuscito”, ma restano intrappolati in quella veste splendida e, alla lunga, asfissiante, che finisce per soffocare tutto il resto. La costruzione narrativa ne risente, e gli attori - tanti, celebri, iconici - diventano figurine da incollare in quell’album un po’ lezioso, ormai stucchevole, da sfogliare solo per il piacere dell’occhio. E anche se qua e là affiorano un orizzonte diverso, una cupezza interessante, una linearità maggiore rispetto ad alcuni titoli precedenti e un nuovo modo di guardare alle dinamiche familiari, tema che Anderson coltiva da sempre, il modello mostra comunque la corda, persino quando tenta lo scarto verso un’inedita dimensione ultraterrena. Gli inserti in bianco e nero di un Paradiso che qui vediamo, per esempio, sono altrettanto spiazzanti. La domanda è: perché tornare a guardare un film di Anderson, soprattutto per uno che ama fortemente l’altro Anderson (PTA)? [Infatti il popolo cinefilo è diviso in due: chi ama l’uno e chi l’altro.] Semplice: perché appunto esiste lo schieramento che idolatra questo cinema e non perde occasione per goderlo ed elogiarlo.
Nell’occasione, è la volta di un thriller (come quasi sempre, anche se non si direbbero) ma anche commedia (sempre) nera (a volte) di spionaggio (sorpresa) prodotto, scritto e diretto a partire da una storia che ha ideato insieme a Roman Coppola, con un cast come di consueto ricco di personaggi, la maggior parte dei quali recitati da attori di primissimo piano. La trama, fenicia perché è il nome del gigantesco piano urbanistico-industriale ideato dal protagonista Zsa‑Zsa Korda, magnate visionario e spregiudicato, che vuole ricostruire un’intera regione in rovina, ci porta nel 1950. Lì, il trafficante d’armi e industriale suddetto Korda (Benicio del Toro) sopravvive per un soffio all’ennesimo tentativo di assassinio: il sesto incidente aereo. Mentre è incosciente, entra nell’aldilà, dove un tribunale divino giudica se sia degno a sufficienza per entrare in Paradiso. Sapendo di non poter scappare per sempre dagli assassini, lui cerca di ricucire il rapporto con la sua unica figlia femmina, la novizia cattolica suor Liesl (Mia Threapleton). Le chiede di lasciare l’abito e la missione religiosa e di prendere in mano la sua attività. I due hanno un rapporto teso da quando lei ha saputo che il padre pare abbia ucciso la madre, ma lui nega decisamente. Nel frattempo, tra loro si inserisce un altro strano personaggio, Bjørn (Michael Cera), un sedicente entomologo norvegese e tutore/assistente amministrativo di Korda.
Da questo momento in poi è un susseguirsi di battaglia dialettica tra padre e figlia testarda e tenace con l’inserimento del nuovo arrivato e di una miriade di persone strampalate. Persino una sfida di basket assurda. I riferimenti a celebri divi del cinema del secolo scorso e a politici americani attuali sono allusivi e tutto serve all’autore anche per una disquisizione polemica con chi amministra gli Stati Uniti oggi. Come un perpetuo rito cinefilo, per Anderson l’argomento principale e sostanziale dell’opera è il difficile rapporto familiare e come sempre c’è un genitore in conflitto con la prole: oltre a Liesl l’uomo ha altri 9 figli, tutti maschi e ragazzini: ha scelto sicuramente lei che, oltre a essere la più grande è donna. La vera antagonista, in faccia ai tanti nemici, è però proprio lei: è lei il punto di frizione, la ferita aperta, il nodo emotivo che il film prova a sciogliere. Ci sono tanti altri figli a complicare l’albero genealogico ma la relazione centrale è quella, diretta e inevitabile, tra un padre ingombrante e una figlia che cerca un proprio spazio. È un rapporto fatto di distanze, ritorni, tentativi maldestri di ricucire, e il film lo usa come asse portante per parlare di eredità, responsabilità e di quel bisogno ostinato di essere visti davvero.
Fa impressione osservare la disponibilità di Benicio del Toro ad abitare questo personaggio singolare e tira fuori tutto il grottesco che è in lui (ha raccontato di essersi innamorato del personaggio dopo aver letto le prime 20 pagine del copione), nel contesto in cui deve controbattere le secche risposte che riceve da quella figlia così, solo apparentemente, tetragona ma che col tempo si adegua e cambia idea. In quei panni, Mia Threapleton (figlia di Kate Winslet) è tutta da studiare. Perfettamente ideale per il cineasta: staremo a vedere di cosa sarà capace nel futuro che sicuramente l’aspetta, e se semmai potrà vagamente seguire le orme della celebre e bravissima madre. La pletora che li circonda vanno e vengono, come sempre, attori a cui piace sempre essere interpellati dal regista: basta leggere il cast per restare sbalorditi.
Il mio voto? Oltre alla considerazione che questo è qualche grado inferiore agli altri film del regista, mi sono annoiato e mi sono chiesto: a che serve un film come questo, anche se messo in scena magnificamente? Viva PTA! (Paul Thomas Anderson, per chi non lo abbia capito)
































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