Grazie ragazzi (2023)
- michemar

- 11 giu 2023
- Tempo di lettura: 7 min

Grazie ragazzi
Italia 2023 dramma 1h57’
Regia: Riccardo Milani
Sceneggiatura: Michele Astori, Riccardo Milani
Fotografia: Saverio Guarna
Montaggio: Patrizia Ceresani, Francesco Renda
Musiche: Davide Canori
Scenografia: Marta Maffucci
Costumi: Alberto Moretti
Antonio Albanese: Antonio
Sonia Bergamasco: Laura
Giacomo Ferrara: Aziz
Vinicio Marchioni: Diego
Fabrizio Bentivoglio: Michele
Nicola Rignanese: Ettore
Andrea Lattanzi: Damiano
Giorgio Montanini: Mignolo
Gerhard Koloneci: Christian
Bogdan Iordachioiu: Radu
Liliana Bottone: Marianna
TRAMA: Antonio è un attore appassionato ma spesso disoccupato. Di fronte alla mancanza di offerte di lavoro, accetta un incarico come insegnante in un laboratorio teatrale all'interno di un carcere.
Voto 6,5

Negli ultimi tempi Riccardo Milani, autore di commedie sempre con lo sguardo rivolto alla tangibile realtà della società odierna, con i suoi problemi di sopravvivenza del ceto più trascurato dalla politica, prende spunto per i suoi film da possibili rifacimenti e anche stavolta ha colto l’occasione da un’opera francese, Un triomphe di Emmanuel Courcol (da noi Un anno con Godot), a sua volta tratto dal documentario Les Prisonniers de Beckett di Michka Saäl (2005), ispirato alla incredibile storia vera accaduta nel 1985 nel carcere di massima sicurezza di Kumla in Svezia, dove un giovane attore, Jan Jönson, decise di mettere in scena Aspettando Godot con cinque detenuti come attori.
Attenzione, però: questa sorta di sottogenere non è nuova in Italia, perché abbiamo avuto un esempio luminoso da parte dei fratelli Taviani quando girarono, nel 2011, Cesare deve morire, ambientato nel carcere di Rebibbia dove alcuni ergastolani, condannati per gravi reati (riguardanti mafia, camorra, ‘drangheta), recitavano canti dell’Inferno di Dante. Come i registi precisarono, le atmosfere cupe della vita dietro le sbarre avevano lasciato il passo all'energia e alla frenesia di un evento culturale e poetico, la loro recitazione istintiva era mossa dal bisogno drammatico di raccontare la verità ed era stata incanalata loro dal lavoro costante e continuativo del regista Fabio Cavalli.
Tornando ora al film in esame, vediamo che, per sbarcare il lunario, Antonio (Antonio Albanese) - un attore teatrale appassionato del suo lavoro, ma spesso disoccupato, tanto da arrangiarsi (“per pagare le bollette”) a doppiare film porno, che vive da solo a Fiumicino, con una moglie di cui non si sa nulla e una figlia che lavora presso una centrale eolica in Canada - accetta un lavoro come insegnante di un laboratorio teatrale all'interno di un istituto penitenziario. L’offerta gliela fornisce il suo collega con cui aveva esordito in teatro anni prima con la più nota opera di Samuel Beckett, Michele (Fabrizio Bentivoglio), che nel frattempo dirige una compagnia e che per farsi notare e godere del compenso, aveva proposto al Ministero della Giustizia un laboratorio teatrale per detenuti del carcere di Velletri. All'inizio titubante, visto anche l’ambiente della prigione e dei pochi e poco dotati carcerati che si erano offerti di partecipare, spinti giusto per uscire dalla monotonia giornaliera della cella, Antonio inizia il corso con molto scetticismo e offrendo a Damiano, Mignolo, Aziz e Christian, poi sostituito da Diego, prepotente piccolo boss di quell’ambiente, di recitare qualcosa a fantasia, sperando di terminare presto e tornare alla solita vita. ed invece, incredibilmente, scopre del talento in quella improbabile e improvvisata compagnia, riaccendendo in lui la passione e la voglia di fare teatro.
Lo spunto del soggetto da proporre a quegli scalcagnati attori e alla severa direttrice del carcere Laura (Sonia Bergamasco) ad Antonio viene ascoltando le lamentele di quegli uomini, che raccontano di vivere male le giornate nella prigione: loro, come tutti gli altri, sono sempre in attesa. In attesa dell’ora d’aria, della visita dei parenti, dei pasti, della palestra, della fine pena e via dicendo. Una vita appesa, in perenne sospensione. Ma quale poesia da recitare, ma quale storiella da raccontare con il piglio dell’attore! Quello che caratterizza la vita dei detenuti è già stata scritta dal più estroso e surreale degli autori teatrali del XX secolo, dal drammaturgo dell’assurdo con cui lui stesso aveva esordito: il loro lavoro verterà – ormai ha deciso – su Aspettando Godot, così come loro aspettano i vari appuntamenti delle grigie giornate carcerarie. Gli ostacoli però esistono, sono evidenti e hanno nomi precisi: l’apatia e la inesistente convinzione dei detenuti e poi le enormi perplessità della direttrice che deve concedere le ore necessarie per le prove e per portare in un vero ed eventuale palcoscenico la rappresentazione. Il miracolo, tra tantissime difficoltà, invece avviene e si rivelerà un vero trionfo.
Le resistenze degli attori dilettanti sembrano un ostacolo insormontabile, un po’ per la scarsa fiducia che hanno nelle loro possibilità, un po’ per la loro profonda generale ignoranza, non solo dell’arte. Hanno un passato difficile, come Aziz, arrivato in Italia a soli sei mesi con la mamma su un gommone sgonfio, o come la seria difficoltà di dizione del balbettante Damiano, ma ormai Antonio è inarrendevole e vuole arrivare in fondo: li esorta continuamente, li redarguisce, ci litiga aspramente ma non molla l’osso. Fin quando il gruppo impara davvero non solo i dialoghi e i movimenti sul palcoscenico, ma cominciano anche (miracolo!) a comprendere addirittura lo spirito dell’opera, assorbendola nei minimi particolari. Anzi, qualcuno di loro si accorge quanto quel testo possa rappresentare la loro situazione. Insomma, si sono arresi alla caparbietà di un uomo che, dopo un primo momento di sfiducia, ha cominciato a credere nella riuscita dell’operazione culturale e di vita di quelle persone reiette dalla società.
L’argomento del potere liberatorio dell’arte e della sua capacità di dare uno scopo ed una speranza a gente che non fa altro che attendere non è nuovo, né nella società né nel cinema che lo racconta. Ancora una volta, lo schermo ci ripropone la dimostrazione di come questo fenomeno importante possa fare una breccia nelle vite dei condannati svuotate dagli eventi che li hanno portati fuori strada. È per questo motivo che si può affermare che il film di Riccardo Milani sia a tesi: l’arte, in ogni sua forma, è il miglior mezzo per alzare le prospettive di vita e le speranze del futuro per persone che non credono più in questi valori. L’importante è, come fa Antonio, toccare i tasti giusti dell’animo di quella gente, avvicinandosi e facendoli confidare, chiedendo e dando fiducia, diventando lui stesso un regista. Nel fare ciò, Riccardo Milani avrebbe dovuto anche spiegare meglio i personaggi interessati: non tutti sono stati sviluppati appieno. Conosciamo bene le angustie di Antonio, ma poco o nulla della figlia Marianna; si approfondiscono i sentimenti solo di alcuni dei cinque coinvolti, ma poco di più; la personalità della direttrice Laura è illustrata in modo superficiale. Ma è chiaro che l’intento principale del film è quello di affrescare in modo lampante la necessità della cultura in ogni strato sociale e soprattutto in ogni luogo della quotidianità. Purtroppo, quello che mi ha maggiormente colpito negativamente è come la sceneggiatura (a quattro mani con Michele Astori) abbia cercato quelli che io chiamo solitamente "accomodamenti" per acconciare il percorso della storia: se nella prima parte abbondante ci sono tutte le premesse per un racconto di formazione sui generis e crescita culturale anche umana ben descritte e filmate, poi il film si perde con faciloneria dietro a fughe dal sapore adolescenziale fuori luogo e specialmente dietro alla mancata definitiva affermazione artistica, nel momento di maggiore attesa, trasformando – ahimè – un bel dramma umano in un finale da commedia persino poco attendibile: come e perché accade che vengano tutti ritrovati i fuggitivi con tanta semplicità e per giunta in contemporanea? Ed infine, in più di un’occasione non vengono mai chiariti i motivi dei cambi di umore e di intenzioni: non c’è una spiegazione al tragitto mentale di Laura che era inizialmente contraria a cedere alle pressanti richieste e poi la ritroviamo entusiasta dell’iniziativa teatrale; alla pari il ritorno sui suoi passi da parte di Antonio dopo che pareva avesse mollato i quattro attori e il rumeno che gli serviva da aiutante perché colto da sconforto. Cambi troppo repentini. Il film, dopo un’intera rappresentazione ineccepibile, piomba insomma nella commedia semplice e comoda.
Se questi sono i difetti, i pregi non mancano, prima di tutto il merito di trattare un bell’argomento riguardante il percorso riabilitativo delle carceri e di recupero di persone altrimenti abbandonate a se stesse. Apprezzabili, inoltre, la regia puntuale di Riccardo Milani e la scelta del cast, in cui primeggia in maniera assoluta il superlativo Antonio Albanese, attore che non tradisce mai le attese nei film di contenuto morale: è un eccellente comico ma nel drammatico sa dare sempre il massimo di sé. ne sa qualcosa anche il buon Gianni Amelio (vedi L’intrepido). È visibile tutta la sua passione per il teatro che lui trasporta dalla convinzione personale a quella del protagonista, a cui dà forza e veridicità. Che poi reciti a memoria e con i tempi giusti con il bravissimo Fabrizio Bentivoglio è scontato, date le diverse precedenti esperienze, e si trovano con facilità. Peccato solo che quest’ultimo gigioneggi un po’ troppo, assumendo – ai fini di un personaggio alquanto fanfarone – espressioni da macchietta, esibendo un repertorio simile alle smorfie di Servillo. Coppia collaudata, comunque, si intendono al volo, basta lasciarli fare. Sonia Bergamasco è invece più trattenuta e asettica, presa completamente dal suo ruolo istituzionale, tranne nel momento che comincia a simpatizzare per quell’uomo solo e sfortunato, organizzandogli perfino una sorpresa nel gran finale. Bravi, bravissimi gli interpreti degli improbabili attori, in particolare Giacomo Ferrara, Andrea Lattanzi e ovviamente Vinicio Marchioni, a suo agio nel ruolo del prepotente.
Il finale è dedicato all’importanza dell’intera operazione, cinematografica e sociale, con un discorso emozionante, appassionato ed emotivo del protagonista Antonio, moralmente valido, anche e soprattutto nei riguardi della vita appesa dei detenuti, discorso che però risulta, nonostante sia attinente al contesto, troppo retorico. Ma di effetto, con un inspiegabile applauso del pubblico del Teatro Argentina completamente trasportato dal monologo. Senza le mie modeste obiezioni avrei senz’altro aggiunto mezzo voto in più. Un’acclamazione va dedicata piuttosto ad Antonio Albanese, il quale racconta come si sia avvicinato al film e al personaggio: “Mi hanno proposto di essere il protagonista di questo film ispirato a una storia vera che non conoscevo e che aveva già ispirato una versione francese di grande successo. Ho letto il copione e ne ho capito subito il valore, visto che nel corso del racconto si assiste a una vera e propria ascesa verso la gioia e la felicità, ho trovato molto stimolante l'opportunità di poter parlare di come l'arte possa migliorare le persone e creare pace e serenità. Ho in qualche modo riconosciuto il mio personaggio e mi sono ritrovato subito in sintonia con quelle dinamiche.”
Merda, merda, merdaaaaaaaaaaaa!
































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