Hedda (2025)
- michemar

- 5 giorni fa
- Tempo di lettura: 6 min

Hedda
USA 2025 dramma 1h47’
Regia: Nia DaCosta
Soggetto: Henrik Ibsen (dramma teatrale “Hedda Gabler”)
Sceneggiatura: Nia DaCosta
Fotografia: Sean Bobbitt
Montaggio: Jacob Secher Schulsinger
Musiche: Hildur Guðnadóttir
Scenografia: Cara Brower
Costumi: Lindsay Pugh
Tessa Thompson: Hedda Gabler
Nina Hoss: Eileen Lovborg
Imogen Poots: Thea Clifton
Tom Bateman: George Tesman
Nicholas Pinnock: giudice Roland Brack
Kathryn Hunter: Bertie
Finbar Lynch: prof. Greenwood
Mirren Mack: Tabitha Greenwood
Jamael Westman: David
Saffron Hocking: Jane Ji
Kathryn Hunter: Bertie
TRAMA: Hedda è una donna tormentata tra il dolore per un amore del suo passato e la sua vita attuale e tranquilla ma allo stesso tempo soffocante. Durante una serata, desideri repressi da tempo cominciano a venire fuori.
VOTO 6,5

Il film di Nia DaCosta reinterpreta il dramma di Ibsen con audacia visiva e parecchia libertà narrativa, mantenendo il nucleo tematico dell’opera originale ma trasportandolo in un contesto più contemporaneo e satirico ma soprattutto rimodulando alcuni personaggi chiave, quindi dando la stessa essenza dell’opera teatrale ma muovendo molto diversamente le pedine sulla scena. Nel dramma di Henrik Ibsen, Hedda è una donna di ventinove anni, figlia di un generale, intrappolata in un matrimonio con il mediocre accademico Jørgen Tesman. La sua vita è segnata dalla noia, dalla repressione e da un desiderio frustrato di controllo e libertà. Quando riappare Ejlert Løvborg, ex amante e rivale intellettuale del marito, Hedda si trova coinvolta in un gioco pericoloso: lo spinge al suicidio e distrugge il manoscritto che avrebbe potuto garantirgli la cattedra al posto del suo sposo. Il dramma si chiude con il suicidio di Hedda, schiacciata dal ricatto del giudice Brack e dalla consapevolezza di non avere più alcun potere sulla propria vita.

Nel film, ambientato nell’Inghilterra degli anni ‘50, Hedda (Tessa Thompson) è una donna di società (o almeno cerca di diventarlo) sofisticata e manipolatrice, sposata con George Tesman (Tom Bateman), professore in cerca di una cattedra. La storia si svolge durante una sola notte, nel corso di una festa sontuosa organizzata per influenzare i professori che decideranno il futuro accademico del suo uomo. Tra gli ospiti c’è Eileen Lovborg (Nina Hoss), ex amante di Hedda e ora rivale per lo stesso incarico nell’Università, che però nel frattempo ha una forte e turbolenta relazione con la timida e scombussolata Thea Clifton (Imogen Poots). Il manoscritto di Eileen, un’opera provocatoria e sessualmente esplicita, diventa il fulcro del conflitto. Nella tumultuosa notte di festa, tra alcol, droghe e sesso nel labirinto delle siepi nella enorme villa che hanno comprato ma che non riescono a mantenere per le scarse finanze che dispongono, Hedda lo distrugge, spingendo Eileen verso il crollo psicologico. Il film si chiude con un finale tragico e visivamente potente, che richiama fedelmente l’epilogo ibseniano.

Da questo confronto emergono alcune differenze sostanziali tra le due opere.
Ambientazione: Oslo fine Ottocento ➡️ Inghilterra anni ‘50
Contesto sociale: patriarcato borghese ➡️ aristocrazia post-bellica con satira sociale
Amante/rivale: Ejlert Løvborg, uomo ➡️ Eileen Lovborg, donna
Motivazioni di Hedda: noia, desiderio di controllo, repressione => ambizione, gelosia, desiderio di potere
Manoscritto: opera accademica di Løvborg ➡️ libro provocatorio di Eileen
Finale: nota* in calce (spoiler!)

Nia DaCosta non si limita a trasporre il testo: lo reinventa parzialmente facendone una rilettura moderna e provocatoria. Cambia genere e dinamiche relazionali, introduce fluidità sessuale e tensioni di classe, e trasforma la pièce in un film visivamente sontuoso e satirico. La festa diventa il palcoscenico di una guerra psicologica, dove Hedda usa il fascino, la crudeltà e l’intelligenza per manipolare chi la circonda. Tutti, dal marito ai presenti, senza sosta e remore. Tuttavia, come nell’opera teatrale - che non ho mai visto ma di cui mi sono documentato spero sufficientemente - il suo desiderio di controllo si trasforma in autodistruzione. Il lavoro della regia è un adattamento che divide: da un lato, affascina per stile e ambizione; dall’altro, rischia di perdere la profondità emotiva e politica dell’originale. Ma nel confronto con Ibsen, emerge chiaramente come la regista abbia voluto attualizzare il dramma mantenendo intatto il cuore tragico di una donna che, pur di non essere dominata, sceglie di autodistruggersi. Non riuscendo ad annullare gli altri, decide di annientarsi.

La regia ha le caratteristiche del cinema attuale: forte di caratteri, colori, immaginazione, azione psicologica che destabilizza, costumi rilevanti, audacia, piccoli virtuosismi di macchina, dialoghi incisivi. Se poi questi ultimi risultano a volte presuntuosamente intellettualistici ancorché artificiosi è un pericolo che si corre quando di inseguono pezzi teatrali di grande rilevanza, cercando di equilibrare i tanto non-detto (a volte si resta perplessi) con i pezzi più esplicativi, tenendo presente che non è mai facile per uno sceneggiatore - nel caso specifico la stessa DaCosta - restare all’altezza dei drammaturghi importanti. Per questo alcune sequenze paiono troppo costruite pur se con l’intento sarcastico della scrittura. Non tutto fila liscio all’intraprendente regista, dando l’impressione di un tentativo velleitario non perfettamente riuscito, troppo artificioso, troppo sotto la forma di un’opera ambiziosa quanto pretenziosa.

Non so se Tessa Thompson sia l’interprete più adatta ma lei si impegna tanto e lo si nota ed è apprezzabile per il suo sforzo (è l’attrice dell’esordio della regista, Little Woods): la trovo troppo impostata e rigida, per giunta con un inglese non perfettamente britannico; anche dalla brava Imogen Poots mi aspettavo di più ma è sacrificata in un personaggio angustiato e fragile, non semplice da interpretare. Chi emerge come una vera diva è Nina Hoss, straordinaria interprete di Eileen, un personaggio complesso di forte carattere, che entra nella villa come un pistolero deciso a tutto, che semina scompiglio nella lunga e affollata notte di gozzoviglie, discussioni, litigi, battibecchi e battaglia psicologica, ma anche di pistole storiche che diventeranno l’elemento squassante e turbativo, fino ad arrivare alla minaccia finale quando tutto sembra precipitare, sia per i troppi bicchieri tracannati da parte di ognuno, sia per lo sfiancante lavoro imperterrito di Hedda che mira solo al disfacimento totale altrui e alla realizzazione del suo piano diabolico.

A proposito delle armi, la chiavetta del cofanetto delle armi, custodita gelosamente nel seno dell’arrivista padrona di casa, diventa importante. Nel raffinato gioco di manipolazioni che si svolge durante la festa, la piccola chiave che Hedda conserva diventa molto più di un semplice oggetto: è il sigillo del suo dominio silenzioso, l’accesso esclusivo ad un potenziale di violenza che solo lei controlla. In un ambiente dove tutto è apparenza, conversazione e strategia sociale, quella chiavetta rappresenta l’unico elemento tangibile di potere assoluto. La regista la utilizza con intelligenza: non è mai ostentata, ma sempre presente, come un promemoria costante della possibilità di rottura. La custodia delle pistole, chiusa e inaccessibile agli altri, diventa il cuore pulsante della tensione. Hedda non ha bisogno di alzare la voce o di agire fisicamente ma il solo fatto che lei possieda quella chiave è sufficiente a far tremare le fondamenta delle relazioni che la circondano. Metafora della sua autodeterminazione in un mondo che cerca di incasellarla, Hedda conserva l’ultima parola, l’ultima mossa, l’ultima minaccia. E quando la tensione esplode, quel piccolo oggetto rivela tutta la sua potenza narrativa.


Il mio giudizio sintetico del voto è fluido, come il gender che irrompe nella trama e nel comportamento dei personaggi: potrebbe essere maggiore o minore, a seconda dello stato d’animo con cui si guarda il film, durante il quale ho avuto attimi di perplessità ed altri in cui ho apprezzato di più l’andamento sia narrativo che l’interpretazione degli attori, alcuni dei quali volutamente sopra le righe, cosa che può dar fastidio.

Notevole la fotografia carica e oscura, ottimi i costumi femminili, curata la scenografia ma ciò che mi ha colpito di più è la colonna sonora di Hildur Guðnadóttir, già Oscar per Jokerv e numerosi premi per Tár, Women Talking - Il diritto di scegliere ed altri film importanti: il commento spesso ritmato e tambureggiante ben accompagna i momenti di tensione, come in Birdman.
Ammirevole, comunque, il lavoro da parte di Nia DaCosta.


Una riflessione è necessaria su questa regista che si va affacciando sul panorama importante del cinema mondiale. Nia DaCosta è una giovane del 1989 che ha alle spalle, prima di questo, già Little Woods (2018), Candyman (2021) e The Marvels (2023) (ed è in arrivo 28 anni dopo: Il tempio delle ossa, quarto capitolo della saga) quindi - pensate un po’ - un crime drama realistico con un sottotesto di denuncia sociale, un horror soprannaturale reboot di un titolo di culto e un film supereroico parte del Marvel Cinematic Universe, e prossimamente un horror classico. Ora è toccato all’adattamento in costume di un importante testo teatrale. A questo punto è difficile trovare un filo conduttore nella pur breve ma in crescita veloce e costante, e comunque già decisamente notevole, filmografia considerando l’età. Eccola qui con un lavoro che nei momenti di bagordi, confusione e frastuono di colori e musica può ricorda Babylon, e in quelli stranianti e provocatori Saltburn, senza trascurare che non mancano accenni da cinica screwball. Staremo a vedere: tutto pare interessante.
*****
Nota*
Finale: (spoiler!)
Suicidio dopo il ricatto di Brack ➡️ suicidio come gesto di rottura e impotenza.






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