Hinterland (2021)
- michemar

- 21 mar
- Tempo di lettura: 6 min

Hinterland
Austria/Lussemburgo 2021 thriller drammatico 1h38’
Regia: Stefan Ruzowitzky
Sceneggiatura: Stefan Ruzowitzky, Robert Buchschwenter, Hanno Pinter
Fotografia: Benedict Neuenfels
Montaggio: Oliver Neumann
Musiche: Kyan Bayani
Scenografia: Martin Reiter, Andreas Sobotka
Costumi: Uli Simon
Murathan Muslu: Peter Perg
Liv Lisa Fries: dott.ssa Theresa Körner
Max von der Groeben: ispettore Paul Severin
Marc Limpach: consigliere di Polizia Victor Renner
Maximillien Jadin: ispettore Hoffman
Aaron Friesz: Kovacs
Matthias Schweighöfer: Josef Severin
Miriam Fontaine: Anna Perg
TRAMA: Vienna, 1920. L’impero austro-ungarico è crollato. Peter Perg, ex ispettore di polizia, torna a casa dalla Grande Guerra, dopo anni di prigionia russa. La città sta cambiando: Peter si sente uno straniero nella nuova Repubblica austriaca. Pur volendo lasciare la città, deve affrontare l’omicidio di uno dei suoi ex compagni.
VOTO 6,5

Peter Perg (Murathan Muslu) torna a casa ma le cose son così cambiate che non c’è più neanche l’imperatore per il quale era andato in guerra e si ritrova in un mondo strano e ostile e il suo precedente sistema di convinzioni e principi viene messo in discussione. L’impero austro-ungarico è collassato, lasciando spazio alla Repubblica austriaca, segnata da instabilità politica, povertà dilagante e disorientamento morale. Gli edifici della città sembrano riflettere questa crisi, con un’architettura distorta e surreale, enfatizzata dagli effetti visivi stranianti del film. Mentre Perg cerca di reinserirsi nella società, viene coinvolto in un’indagine che riporta in primo piano il suo istinto da investigatore: un suo ex compagno d’armi viene trovato brutalmente assassinato. Nonostante il suo iniziale desiderio di restare distante, si ritrova coinvolto in una catena di omicidi raccapriccianti che lo costringono a confrontarsi con il proprio passato e con i traumi non ancora superati.
L’ispettore attuale lo riconosce ma non lo stima più di tanto, anzi pare che provi fastidio e ritrovarselo tra i piedi. Accolto momentaneamente dalla polizia affinché dia una mano per trovare l’assassino, è supportato dalla intraprendente patologa forense dottoressa Theresa Körner (Liv Lisa Fries). Si scopre che il compagno non è l’unica vittima, ma è caduto vittima di un serial killer e lui stesso è personalmente collegato a tutte le vittime: l’assassino lascia sempre un segnale recondito nella sua efferatezza ed è il numero 19. Difatti la squadra dei militari prigionieri era di 20 persone e per chissà quale movente uno di loro sta uccidendo gli altri 19. Persino lui viene sospettato dai suoi ex colleghi.
La narrazione si svolge sullo sfondo delle devastazioni sociali e psicologiche causate dalla Prima Guerra Mondiale, mettendo in scena un’atmosfera che fonde elementi storici con tonalità da film espressionista. Fotografia blu grigio, immagini buie, colori carichi densi, tutto pare un sogno pauroso dettato dalla visione, acuito dalla scenografia e dall’ambientazione, fatte di inquadrature oblique, palazzi sbilenchi che paiono inclinarsi minacciosi sui passanti, strade in salita, guglie di chiese che puntano al cielo bluastro e nuvoloso. A ciò vanno aggiunti lo sguardo provocatorio della regia sugli atteggiamenti e l’approccio dei personaggi, i mozziconi spenti sul tavolaccio dell’obitorio, i corridoi da horror, i pavimenti minacciosi, la gente che passeggia con il sorriso equivoco della tragedia finita. In questo quadro scuro si staglia un protagonista tenebroso, non amante della parola, misantropo, scontroso, estraneo all’ambiente. Si trascina preoccupato e guardingo, per nulla fiducioso delle persone che incrocia e di cui farebbe volentieri a meno, ma le vicende e la misteriosità delle vicende lo tirano dentro e un po’ per la professione che aveva, un po’ per i suoi commilitoni uccisi, non può fare a meno di interessarsi alle indagini dall’alto della sua enorme abilità di risolvere i casi anche più ostici.
Unica ciambella psicologica di salvataggio per lui è appunto la dottoressa Theresa Körner, che lo tratta con gentilezza, lo guarda con ammirazione, cercando di ammorbidire questa persona traumatizzata dalla dura esperienza e che ora deve rintracciare un nemico invisibile che agisce nel buio e all’improvviso, in varie località della città. Un altro uomo affetto da trauma post traumatico che evidentemente non trova salvezza, reo di gesti insani. I cadaveri che trovano hanno arti mozzati, corpi deturpati, torturati, messi in croce, con una fantasia macabra e insolente. I due formano una coppia inusuale ma complementare: lui tormentato e cinico, lei razionale e risoluta. Insieme scoprono che il killer sceglie le sue vittime seguendo un macabro schema e che le sue azioni sono legate agli orrori della guerra e alla corruzione endemica nel sistema. Per sua fortuna, il protagonista trova un insperato alleato nel poliziotto che lo ha odiato dal primo istante, e che invece cambia totalmente atteggiamento quando scopre che era compagno di guerra e di prigionia del fratello di cui non ha più notizie e di cui Perg dà il ragguaglio della morte.
Come ogni thriller ben congegnato ci si avvia al gran finale con alcune sorprendenti soluzioni ed un colpo di scena che parrebbe inaspettato e quando invece si comincia ad intuire qualcosa lo spettatore ha qualche elemento in più a disposizione, pur rimanendo sempre in sospeso ogni tipo di finale. E coerentemente, come ogni buon thriller, il finale, a trabocchetto, è falso, porta fuori pista e il giro ricomincia. La figura disegnata del personaggio centrale ricorda altri protagonisti sofferti, angosciati, che vogliono dimenticare o cambiar vita, o almeno trovare un posto, fisico o dell’anima, che dia finalmente quiete e luce. Forse per il nostro sarà il sorriso della affettuosa e preoccupata Körner, alla cui luminosità – unico punto di luce, unica oasi di pace – non si può porre resistenza. Eppure, lui lo fa, perché in cuor suo c’è solo la famigliola che lo aspetta da anni: la paziente moglie ed una bambina che vuol conoscere il padre. Chissà perché mi è tornato in mente la personalità rovinata del bellissimo protagonista di Will Graham (William Petersen) in Manhunter - Frammenti di un omicidio.
La cupezza che si avverte senza pausa è trasmessa dal regista Stefan Ruzowitzky (Il falsario - Operazione Bernhard, Legami di sangue - Deadfall) con la scelta di uno stile che tutti hanno definito di stampo espressionista, con l’accennata fotografia scura, buia, che aumenta la sensazione che prova il protagonista e che a sua volta trasmette al pubblico: è indubbiamente un modo singolare e un’angolazione insolita il modo di raccontare questa storia, ma è funzionale allo scopo, seppur senz’altro audace come progetto. L’impressione che si ricava è quella di stare al leggere una graphic novel gotica interamente disegnata con la china, con il colore scelto che aumenta la sensazione dell’angoscia.

Ottimi gli effetti visivi e i movimenti di macchina (avvitamenti, carrellate) che disorientano chi assiste davanti allo schermo, mentre sembrano eccessive certe reazioni di alcuni personaggi, da melodramma, ma evidentemente volute per dar maggior risalto al tono impostato dalla regia all’insieme dell’opera. Stefan Ruzowitzky ha perciò messo sul tavolo della discussione temi riguardanti giustizia, redenzione, corruzione e il peso del passato, combinando un’ambientazione storica dettagliata con una trama avvincente e ricca di colpi di scena. È un viaggio oscuro e introspettivo, che non offre solo un’indagine poliziesca ma anche una riflessione sulla difficoltà di trovare il proprio posto in un mondo profondamente cambiato, mediante una narrazione che intreccia tensione, dramma psicologico e critica sociale, rivelando i lati oscuri delle istituzioni e della psiche umana. Difatti, il regista ne parla così: “Abbiamo cercato di restituire l’immagine di un mondo sostanzialmente distorto, una versione digitale del classico del cinema muto ‘Il gabinetto del dottor Caligari’, per così dire, in cui abbiamo lavorato con sfondi espressionisti storti. Il film è stato girato quasi esclusivamente su uno schermo blu. Abbiamo cercato di creare un equilibrio emozionante tra questo mondo duro, rumoroso e brutale degli uomini e i complessi paesaggi delle anime dei nostri protagonisti con le loro ferite esistenziali.”

Ineccepibile e interessante l’interpretazione che dà l’attore Murathan Muslu nel ruolo principale, certamente un ruolo non facile, la cui personalità che poteva essere distorta se si sbagliava il dosaggio delle caratteristiche mentali e fisiche. Liv Lisa Fries è come sempre fantastica, duttile nei vari personaggi che le vengono affidati, tanto che ogni volta è una sorpresa trovarla (confrontare con Berlino, estate ‘42 per intenderci) ed una bella scoperta se non la si conosce.

Per apprezzare appieno questo buonissimo film necessita (come è capitato a chi scrive) avere pazienza nei primi minuti perché è normale restare perplessi dalla forma con cui si presenta, ma una volta entrati nel meccanismo così costruito, una volta inserirsi nella storia e capito l’ambiente, scocca la scintilla e ci si appassiona sia come dramma che come poliziesco. È e risulta abbastanza strano all’inizio, ma poi ci si accorge che è emozionante sebbene macabro. Richiede tempo e poi si apprezza. Qualcuno scrisse che è un’opera malata di mascolinità tossica e lo trovo chiaramente un giudizio errato, perché il ruolo della dottoressa è prima di tutto influente e poi è il tipo di donna che si impone con determinazione, facendosi valere come professionista a prescindere dal sesso.
Buon film, immeritatamente trascurato, vincitore del Premio del pubblico a Locarno 2021.


























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