top of page

Titolo grande

Avenir Light una delle font preferite dai designer. Facile da leggere, viene utilizzata per titoli e paragrafi.

Manhunter - Frammenti di un omicidio (1986)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 2 feb 2021
  • Tempo di lettura: 7 min

ree

Manhunter - Frammenti di un omicidio

(Manhunter) USA 1986 thriller 1h59'


Regia: Michael Mann

Soggetto: Thomas Harris (romanzo ‘Red Dragon’)

Sceneggiatura: Michael Mann

Fotografia: Dante Spinotti

Montaggio: Dov Hoenig

Musiche: Michel Rubini, The Reds

Scenografia: Mel Bourne

Costumi: Colleen Atwood


William Petersen: Will Graham

Brian Cox: Dr. Hannibal Lecktor

Dennis Farina: Jack Crawford

Tom Noonan: Francis Dolarhyde

Kim Greist: Molly Graham

Stephen Lang: Freddy Lounds

Joan Allen: Reba McClane

Michael Talbott: Geehan


TRAMA: Will Graham, ex agente dell'FBI, si è ritirato a causa delle ossessioni mentali che gli ha procurato la caccia ad un pericoloso criminale, lo psichiatra cannibale Hannibal Lecktor. La sua vita tranquilla in Florida con la moglie Molly e il figlio Kevin viene interrotta quando l’ex capo gli propone di tornare in servizio per indagare su uno psicopatico assassino seriale, Francis Dolarhyde, detto "dente di fata". Il killer, incapace di gestire relazioni sociali, ha già commesso due orrendi delitti e lascia frammenti di specchio negli occhi delle vittime.


Voto 8,5


ree

Un pantano, una palude, sabbie mobili che inghiottono Will Graham ogni volta che indaga su un omicidio. Ne è sempre uscito indenne ma l’ultima volta gli è costata cara, tanto cara che pur non affogando è rimasto prigioniero, fisicamente ed emotivamente. È stato uno sforzo sovrumano quello a cui si è sentito sottoposto nonostante l’operazione sia riuscita perfettamente, dal momento che lo psichiatra antropofago Hannibal Lecktor è finito definitivamente in cella, ma le ferite corporali e quelle mentali lo ha rovinato forse per sempre. Il suo metodo di totale identificazione con il mostro da fermare implica sempre una tale immedesimazione comportamentale che la mente si annienta, il corpo si debilita, ma è stato lo sforzo finale dell’ultimo maledettissimo caso a indurlo a chiudere con l’attività e ritirarsi con la bella e amata moglie Molly e il piccolo Kevin in una villa sulla sabbia bianca dell’oceano. Le ferite del passato sono difficili da rimarginare ma la natura, il mare, l’affetto familiare, il salvataggio delle uova di tartarughe marine sono la migliore medicina per le sue ossessioni. Fino a quando.


ree

Fino a quando il suo ex capo nell’FBI Jack Crawford gli fa visita per dirgli se si sente in grado, ma senza alcuna implicazione emotiva, di aiutarlo nella ricerca di un ennesimo serial killer, un efferatissimo assassino che compie massacri familiari senza alcuna motivazione specifica, con una solo caratteristica: ogni luna nuova. E in quel momento mancano tre settimane al nuovo mese lunare. Ci siamo, non c’è tempo, ma le indagini brancolano nel buio più assoluto. Solo un indizio, frutto della meticolosa indagine scientifica di una organizzazione come il Bureau può ricavare: il killer addenta – tra gli altri suoi ano(r)mali gesti criminali e pazzoidi – le sue vittime, motivo per cui lo hanno soprannominato “tooth fairy”, nella versione italiana “dente di fata”. Per il resto è totale mistero. Quest’uomo può essere di una qualsiasi città di un qualsiasi stato, può essere un cittadino di qualsiasi estrazione sociale, non esiste un filo logico che lega i casi, se non il fatto che sono belle famiglie benestanti che abitano in ville isolate. Dove lavora? Perché lo fa? Come sceglie l’obiettivo?


ree

Ci sono thriller o noir polizieschi che hanno un ritmo elevato sin dall’inizio, ma che concedono allo spettatore momenti di calo di tensione, sequenze di pausa, diciamo, respiratoria, minuti di riflessione e contemplazione. No, Michael Mann non ci concede alcuna sosta, la trama va avanti come un treno veloce che non prevede fermate. Ciò che si prova è che come un mantello che si adagia sopra tutti noi e loro (spettatori e protagonisti), la sensazione del perturbante ci schiaccia dall’alto senza che ci siano via di uscita. Quel senso di impotenza dell’ineluttabile e della tragedia incombe continuamente dando la percezione che già esistesse prima, che continua e che non sarà semplice sbarazzarsene, se non con una conclusione funesta. L’assassino è lì, fuori, sicuramente con un progetto malefico, noi qui, a cercare un minimo indizio, un errore, una fatalità fortunosa che possa aprire uno spiraglio.


ree

Will non vuole farsi trascinare, non vuole far preoccupare la moglie ed il figlio, sa che se si lascia invischiare pagherà ancora più caro rispetto alla volta precedente e ripiomberà ancora nell’incubo psicologico. Per semplificare, per farsi aiutare, decide di rivolgersi addirittura al cattivissimo per eccellenza, al maestro dell’omicidio, che nel frattempo è diventato l’idolo del ricercato. Hannibal Lektor è pericoloso come un caimano affamato ed è una mente sopraffina. I suoi ragionamenti gli mettono terrore: Will sa che basta un niente per trovarsi nei guai e se concede un nonnulla a quel mostro, quel nonnulla può diventare un’arma letale contro di lui. Una delle sequenze più belle arriva infatti proprio in quel carcere di sicurezza in cui Lektor è detenuto: bianco come un manicomio, di un bianco accecante, come le sbarre e gli indumenti, come i corridoi e le scale, come le mura dell’edificio rotondo con le rampe a chiocciola, che Graham scende correndo e spaventato, per arrivare senza fiato all’uscita. Il finale sarà a due, ma dietro c’è sempre la mano e soprattutto la mente eccelsa del peggior criminale visto, anche se è in una prigione supersicura. Lui evidentemente non ha limiti o confini. Will ci è dentro ancora una volta, anima e cuore, mente e corpo, perché ormai è di nuovo nella melma della mente avversa, ragiona come lui, immagina, guarda, si sostituisce. È come se dovesse fermare ed eliminare un alter ego.


ree

Michael Mann ci porta ancora una volta nel profondo della sua immaginazione, ci sbatte davanti agli occhi superfici piane, lucenti, scorrevoli e ampie, frustandoci con un commento musicale di prim’ordine scelto tra celebri brani rock che possono sembrare fuori luogo e che invece paiono scritti appositamente, come In-a-Gadda-da-Vida degli Iron Butterfly, per esempio, nei momenti di più alta tensione. Rock e ritmo narrativo, deduzioni investigative senza interruzioni perché il tempo stringe, il viso sofferente di Will; le discussioni accese con il suo capo Crawford; le preoccupazioni della moglie; il fisico alto, magro, dai gesti sicuri e spietati di “denti di fata” che ama usare i “frammenti” del titolo, che non solo altro che specchi che rompe, che usa come arma o come bisturi, o peggio ancora come occhi suppletivi da infilare nelle palpebre aperte delle vittime. Francis Dollarhyde non è che un derelitto della società che lo ha maltrattato e ripudiato, nascosto nelle sembianze di un uomo che non nota nessuno, che si è creato un immaginario mondo a parte dominato dal Dragone Rosso, la sua vera e unica divinità che lo ispira nelle gesta. Lavora nel posto ideale per venire a conoscenza delle famiglie che sceglie, un laboratorio di sviluppo di pellicole dove queste portano i loro filmini. Un luogo di partenza perfetto per uno psicopatico che non conosce margini che possano delimitare la sua fantasia malata. L’attimo di amore che lo sfiora, che dà la vana speranza del ravvedimento, lo conduce invece verso una rabbia maggiore, verso l’ira che non riesce a trattenere. Sarà l’inizio del gran finale, filmato nella maniera tipica del cinema degli anni ’80.


ree

Michael Mann: “Io cerco davvero di essere il più possibile immerso nel mondo del film che sto facendo. Perché qualcuno dovrebbe volere diversamente? Più a fondo si va nella complessità, più ricche sono le scoperte. Di solito sono in cerca di contraddizioni e anomalie. La ricerca è sul personaggio e sull’atmosfera, sull’esito inaspettato di un evento, sui toni e i colori, i ritmi e i modelli che creano l’ambientazione giusta. Nel costruire un’opera – usando il potere della storia per immergere il pubblico fino al punto in cui si trova in una sospensione del presente – all’inseguimento di quel genere di ambizione drammatica, la virtù non sta nella verità oggettiva in sé. Il valore dell’immersione profonda – da un punto di vista antropologico, all’interno di una subcultura o di una singola attività – produce in me l’immersione nella storia che sto creando. Dal punto di vista artistico, credo che le componenti di cui percepisco il bisogno, devo farle mie e manipolarle. L’autenticità proviene dall’interezza della realtà, non dalla rappresentazione accurata di ogni sua parte. Nell’insieme, il processo di immersione è analogo a quello attraverso il quale l’attore si cala nel personaggio. È quello che ho provato a fare. Per un regista, ovviamente, non si tratta di un personaggio: è il mondo complessivo del film. Per il personaggio di Dollarhyde - così magnificamente interpretato da Tom Noonan - ho preso lo schema delirante della sua mente, il motivo per cui si trovava là, l’umore nerissimo, la convinzione di avere un vero amore. Lavorare con l’unità di scienze comportamentali dell’Fbi e capire il modo in cui questi investigatori pensano ai serial killer, con cui hanno numerosi colloqui e che arrivano a conoscere molto bene, ha creato la condizione mentale con cui Graham addirittura ha attaccato Dennis Farina in una scena: mantenendo al tempo stesso la simpatia per il killer in quanto ragazzo che ha subito abusi, la vittima, e l’intenzione di fargliela pagare.


ree

ree

Il film non fu accolto granché all’uscita ma per fortuna non è stato mai dimenticato, fino a diventare oggi un vero cultmovie, un film che personalmente considero un piccolo capolavoro. Diretto come sempre con mano esperta e con idee chiarissime, Mann ha scelto attori perfetti: William Petersen, che indossa i panni sofferti Will Graham, si cala nel personaggio con una intensità demolitrice, abitandolo da dentro così come succede al suo poliziotto. Aveva 33 anni all’uscita del film e aveva lavorato nei due film precedenti della carriera del regista, ma mai più ha avuto un’occasione fenomenale come questa, per un film indimenticabile. Ancora oggi, chi ricorda questo suo Will non può fare a meno di riandare con la mente ogni volta che lo nota in altre opere, soprattutto in TV dove ha riscosso molto successo con la serie celeberrima di CSI - Scena del crimine (ben 196 episodi). Bravissimo anche Dennis Farina, performante al massimo. Come anche l’apprezzato dal regista Tom Noonan: il suo Francis Dollarhyde è naturalmente spaventoso. Elogi a parte per un attore sempre dietro i protagonisti, Brian Cox. Il suo Hannibal non avrà il carisma di quello di Anthony Hopkins, ma tanto di cappello, mette la stessa paura con una recitazione esemplare. È lui che ci spiega il Male, riferendosi anche a Dio, che ogni giorno fa morire anime innocenti. Come innocenti sono i silenziosi di Jonathan Demme, che tornerà prepotente sull’argomento.

Film grandiosamente infernale, imperdibile, esaltato dalla magistrale fotografia di Dante Spinotti.



 
 
 

Commenti


Il Cinema secondo me,

michemar

cinefilo da bambino

bottom of page