Hostiles - Ostili (2017)
- michemar
- 4 apr 2019
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 8 ott 2023

Hostiles - Ostili
(Hostiles) USA 2017 western 2h14’
Regia: Scott Cooper
Soggetto: Donald E. Stewart (manoscritto)
Sceneggiatura: Scott Cooper
Fotografia: Masanobu Takayanagi
Montaggio: Tom Cross
Musiche: Max Richter
Scenografia: Donald Graham Burt
Costumi: Jenny Eagan
Christian Bale: cap. Joseph J. Blocker
Rosamund Pike: Rosalie Quaid
Ben Foster: serg. Charles Wills
Stephen Lang: col. Abraham Biggs
Rory Cochrane: serg. Magg. Thomas Metz
Jesse Plemons: ten. Rudy Kidder
Timothée Chalamet: Philippe DeJardin
Jonathan Majors: Henry Woodson
Wes Studi: Falco Giallo
Adam Beach: Falco Nero
Q'orianka Kilcher: Elk Woman
Xavier Horsechief: Little Bear
Paul Anderson: Tommy Thomas
Ryan Bingham: serg. Paul Malloy
Peter Mullan: ten. col. Ross McCowan
TRAMA: Nel 1892 il capitano dell'esercito Joseph J. Blocker, arcigno e rancoroso verso i nativi, è costretto da un ordine impostogli dal suo superiore ad accompagnare un morente capo Cheyenne e la sua famiglia nel viaggio per tornare alla loro terra nativa. Durante il percorso i prigionieri, il piccolo drappello di soldati e un'inaspettata compagna di viaggio dovranno affrontare lutti, minacce e pericoli, che faranno loro guardare il passato in modo molto differente.
Voto 8

“Nella sua essenza, l’anima americana è dura, solitaria, stoica e assassina. Finora non si è mai ammorbidita”.
D.H. Lawrence
Questa frase del celebre scrittore e pittore inglese annuncia nel buio iniziale dello schermo il contenuto del film di Scott Cooper, che in tutta la sua crudezza non parla a moglie affinché suocera intenda, ma va dritta all’anima più coriacea dell’America rurale, quella che ha contribuito principalmente all’ascesa verso la Casa Bianca di un suprematista bianco, ricco e affarista, di nome Donald Trump. Sia chiaro sin dall’inizio, del film e del mio scritto, che la quarta opera del regista virginiano punta senza esitazione verso quell’America ed è una precisa metafora con cui senza mezzi termini ci parla dell’oggi e dell’America attuale tramite gli avvenimenti verificatisi nel periodo in cui i nativi furono annientati e resi innocui dalla conquista del West da parte dei coloni bianchi.
Il regista ci spiega subito con la prima sequenza chi sono i buoni e chi i cattivi, almeno apparentemente: una piccola fattoria, una casa in cui la mamma insegna grammatica alle due piccole mentre l’ultimo pargoletto riposa nella culla e il papà che lavora all’aperto. Ma ecco che arrivano i comanchi molto male intenzionati ed è facilmente intuibile come va a finire. Sopravvive solo la donna atterrita e sconvolta che scappa nel bosco vanamente inseguita. Rapidamente siamo stati catapultati nel più classico dei generi americani, il western, con i buoni e i cattivi già spiegati. Ma non è così semplice per Scott Cooper, non è qui e neanche il momento per mostrare la parte da cui stare, perché l’animo umano non è così semplice, non sempre i buoni sono quelli che sembrano, così come i cattivi.

Infatti subito dopo la scena si capovolge: vediamo soldati blu dell’Unione che maltrattano un prigioniero indiano, condannato per le efferate uccisioni da lui commesse. Lo malmenano duramente, come anche la moglie e la bambina, in quanto sono scappati dal forte in cui vengono tenuti confinati nelle celle con tutti gli altri indiani che sono riusciti a catturare. Nel forte c’è il capitano Joe Blocker a cui stanno impartendo un ordine che non avrebbe mai voluto ricevere. Il capitano è istruito, legge il Giulio Cesare in latino ed è un militare esemplare non solo per lo stato di servizio e per le sue prodezze sul campo, quanto per il fatto che sa perfettamente essere al suo posto, non esprimendo mai un parere nel merito delle decisioni, ma sapendo ubbidire a qualsiasi tipo di ordine. Il compito che riceve però è tanto semplice quanto da lui molto sgradito e anche molto pericoloso: Falco Giallo, il capo dei cheyenne lì detenuto, deve essere trasferito, scortato con un drappello di soldati al suo comando. Solo in questo caso si sbilancia mostrando tutto il malcelato rancore verso quel prigioniero, perché barbaro autore della morte di suoi cari colleghi e amici e se Falco Giallo è tenuto lì da sette anni a lui sembrano anche pochi e si ribella all’incarico. Lo cheyenne, questo è il problema, è malato terminale e vuole morire nella Valle degli Orsi, nel Montana, territorio sacro per la sua razza e per volere di Washington lui e la sua famiglia devono essere lì condotti. Il capitano è costretto ad ubbidire solo perché ricattato dal colonnello con la perdita della ormai prossima pensione e soprattutto con il rischio di andare a finire sotto Corte Marziale. Ma non ha vergogna ad ammettere: “Io li odio. Ho migliaia di ragioni per odiarli.” Il suo tormento è profondo, non è facile accettare questo compito, sarà durissima ma dovrà obbedire: scortare un feroce assassino come fosse meritevole di tale riguardo.

Quindi due punti di partenza, due storie diverse e in due luoghi differenti, due personaggi importanti della storia: lei è Rosalee Quaid, la donna scampata alla strage, lui è il capitano Joe Blocker, capo della scorta di Falco Giallo. Hanno due vite e due strade che sono costretti a seguire, eppure il destino farà incrociare i loro percorsi, per attraversare mezza America assieme, tra mille disavventure, facendo nel frattempo cambiare non poco le loro convinzioni sul popolo pellerossa. Il gruppo che fatalmente si comporrà è composto da un manipolo di militari, dalla famiglia del capo Falco Giallo morente e dalla donna superstite. Nelle tante traversie che vivranno avranno modo di aiutarsi e comprendere meglio il compagno di viaggio, che sia bianco o pellerossa, che parli la lingua inglese o l’indiano, che creda in Dio o in un'altra divinità. Siamo tutti nella stessa barca e questa barca si chiama Terra e tutti dobbiamo morire, come dice il vecchio capo indiano. Ciò che prima era impensabile, piano piano si realizza, ciò che prima era odio diventa stima e assieme combatteranno per sopravvivere all’assalto dei comuni nemici comanche. Il finale è ovviamente cruento: niente è facile in quelle terre dell’Ovest conquistato con la forza e con la violenza, sentimenti che esistono anche tra gli stessi bianchi ora che sono diventati i nuovi conquistatori.
Scott Cooper gira così un western che più classico non poteva essere: grandi praterie fotografate con occhi di esperto, tramonti spettacolari sulle alture della strada che porta al Montana, valli polverose su cui si affacciano gigantesche montagne rocciose e rossastre, fiumi da guadare con i cavalli che nitriscono. Non c’è il romanticismo del west fordiano: il west di Cooper è asciutto ed essenziale, che guarda principalmente alla storia con la crudezza del racconto, esaminando il comportamento di uomini avvezzi, troppo avvezzi alle violenze. Nulla li stravolge, nulla li spaventa, dopo tante battaglie sanguinose con gli indiani vinte o perse. Dal Massacro di Wounded Knee alla Battaglia del Little Bighorn, le hanno viste tutte. E adesso, ormai alla conclusione dell’invasione, con gli indiani stanchi e smarriti richiusi nelle riserve, attendono l’avvento del Nuovo Mondo nonostante la mente non dimentichi e sia stanca per molti di loro, fino al punto che qualcuno, come il fedele sergente Thomas Metz, decide perfino di farla finita. La brutalità è stata invasiva e per alcuni tanto, troppo insopportabile.

È anche (soprattutto?) un western mentale, costruito sulla storia americana colma di sofferenze, di rancori, di razzismo, di incomprensioni, e di tanto sangue, versato perché storicamente l’uomo che prevale annienta sempre il nativo della terra conquistata, con la pretesa che l’oppresso debba subire senza reagire sottomettendosi. È proprio questo che esprimono i personaggi di questo bellissimo film: i loro visi corrucciati, le loro espressioni agguerrite e mai sorridenti lo raccontano in maniera lampante. Ed è il duro compito che un grandissimo Christian Bale sa svolgere magnificamente dall’inizio alla fine del film da grandissimo attore. Il suo capitano Joe è sempre compito, perennemente accigliato, con la mente indirizzata solo ai suoi doveri di ineccepibile militare, atteggiamento accentuato da un paio di baffoni che coprono le labbra sempre curvate all’ingiù, giusto per accrescere il suo aplomb di soldato severo e austero. Christian Bale non è solo perfetto, è straordinariamente dentro al ruolo, credo in uno delle sue migliori prestazioni di sempre, per giunta completata da una pronuncia rauca e bassa di parole troncate, come per risparmiare tempo inutile dedicato ai dialoghi, che sono di per sé già stringati. Il valente Scott Cooper firma da regista e sceneggiatore un film totalmente sostanziale, asciutto e senza fronzoli o sentimentalismi: il West era un mondo difficile e chi abita questo film sono personaggi consapevoli. L’attore e il regista vanno in sincronia, come se la precedente esperienza tra i due ne Il fuoco della vendetta - Out of the Furnace sia servito da prodromico per arrivare a questo traguardo. Grande attore, Bale, che qui si supera davvero.

Rosamund Pike ha cambiato la sua vita, non può essere altrimenti: dopo il successo e la sua personale affermazione nel Gone Girl (recensione) di David Fincher sembra un’altra attrice, ben conscia delle proprie possibilità, tanto che in A Private War e in questo film consolida il suo ottimo momento. Sa essere bella ma anche feroce, spostando anche di pochissimo l’espressione del suo strabismo così affascinante: bravissima ed efficace. Gli altri attori? Un gruppo ineccepibile, una ottima compagnia ottimamente diretta. L’unico che mi desta qualche perplessità è il giovane (lo troviamo dappertutto ormai) Timothée Chalamet, che con il suo stile ciondolante e poco militaresco l’ho visto poco adatto al suo ruolo di giovane soldato, pur se la sua presenza non dura molto, per sfortuna del suo personaggio. Wes Studi? Con l’ennesima rappresentazione del pellerossa fa venire in mente ancora una volta che prima o poi bisognerà consegnargli un premio alla carriera, perché lui è l’essenza della sua razza nel cinema. Nato nella terra dei Cherokee, ha iniziato la carriera con l’indimenticabile Balla coi lupi e poi non si è più fermato e tra tanti ruoli affidatigli chissà quante volte è stato l’indiano cattivo o buono nel cinema. Lunga vita a Wes! Tra le rare figure femminili ritroviamo Q'orianka Kilcher, la Pocahontas di Terrence Malick.

Ciò che si deduce da questo film è che Scott Cooper è un eccellente regista, un cineasta molto capace da tenere sempre in considerazione. I suoi film sono tutti di grande fascino, soprattutto questo, e sono convinto che nel futuro egli ci sorprenderà ancora positivamente: film mai banali, mai comuni, sempre incisivi. Non perdiamolo d’occhio. A proposito del film, alla domanda se il genere western può essere usato per affrontare il presente, un po’ come fece Arthur Penn con Piccolo grande uomo, che in realtà parlava del Vietnam, ha risposto: “Il genere classico è più concentrato sulla contrapposizione netta tra bene e male, bianco e nero, buono e cattivo. In questo film sono tutti ostili: il governo americano nei confronti dei nativi, i comanchi nei confronti dei coloni. Ho voluto fare un western vecchio stile ma anche contemporaneo, per mettere a fuoco la divisione razziale e culturale che sperimentiamo oggi. Per realizzarlo ci sono voluti circa due anni. Solo dopo il lavoro di montaggio, mi sono reso conto che questo film parlava della divisione politica che esiste oggi.”

La speranza, sua e nostra di uomini civili, sta tutta nella sequenza finale, in cui il capitano Joe, ormai in borghese e pensionato, è indeciso se salutare definitivamente o no la vedova Rosalee che sta salendo sul treno per Chicago per tornare ad una vita senza più traumi assieme all’unico superstite della famiglia cheyenne. È questo il momento in cui anche lui deve decidere per il suo futuro: lasciar partire il treno o salirvi su, restare o andare anche lui verso una nuova vita, dimenticare tutto e aiutare Piccolo Orso a crescere. Lui che rappresenta la speranza di un mondo senza più ostilità.
In conclusione, il più bel western che io abbia visto negli ultimi anni.
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