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Il capitale umano - Human Capital (2019)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 2 apr 2021
  • Tempo di lettura: 4 min

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Il capitale umano - Human Capital

(Human Capital) USA 2019 dramma 1h38’


Regia: Marc Meyers

Soggetto: Stephen Amidon (romanzo)

Sceneggiatura: Oren Moverman

Fotografia: Kat Westergaard

Montaggio: Tariq Anwar, Alex Hall

Musiche: Marcelo Zarvos

Scenografia: Mary Lena Colston

Costumi: Vanessa Porter


Liev Schreiber: Drew

Marisa Tomei: Carrie

Peter Sarsgaard: Quint Manning

Alex Wolff: Ian

Maya Hawke: Shannon

Betty Gabriel: Ronnie Manning

Paul Sparks: Jon

Aasif Mandvi: Godeep

Fred Hechinger: Jamie

Fredric Lehne: Flowers


TRAMA: Le vite di due differenti famiglie entrano in rotta di collisione quando i loro rispettivi figli iniziano una relazione che porta a un tragico incidente.


Voto 6

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Scrivere di questo film porta inevitabilmente a riferirsi al suo originale, quello di Paolo Virzì, molto meglio riuscito, anzi uno dei migliori del regista livornese. È inevitabile in quanto è un rifacimento che mantiene – pur se solo nella sostanza – lo spirito del romanzo di Stephen Amidon da cui entrambi sono tratti. Questo per noi sconosciuto regista americano, Marc Meyers, ha usato la medesima tecnica di narrazione come meglio e, spero esaustivamente, ho spiegato nella recensione dell’opera di Virzì, un particolarissimo modo di raccontare gli avvenimenti accompagnando tutti i personaggi dedicando ad ognuno di loro un capitolo a parte. Tanti filoni che conducono all’unico inevitabile finale, dando l’idea di una scrittura ellittica.

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Invece è il modo innovativo (che impressionò tantissimo la critica e tutto l’ambiente cinematografico) con cui sua Maestà il Genio Stanley Kubrick costruì l’impalcatura del suo bellissimo Rapina a mano armata. Ma su questo argomento, dicevo, mi spiego meglio nell’altra recensione. Quindi questa versione americana rifà il verso e ripete la storia nello stesso modo. Ma con importanti differenze. I personaggi sono gli stessi, ma solo in partenza. C’è Drew Hagel, l’intermediario immobiliare in forte fase di stallo, con pochi affari e senza risparmi, risposato dopo la fuga della moglie hippy, una figlia adolescente e molto irrequieta, due gemellini in arrivo, ma contratti zero. Le coincidenze della vita lo portano a conoscere Quint Manning, un finanziere spericolato che, come nell’originale italiano, conquista la totale fiducia di Drew il quale si indebita fino al collo con la banca per poter investire 300.000 dollari in un investimento ad alto rischio, i famigerati hedge fund, in cui perde il 90%. È in pratica l’altro personaggio che cammina sulla fune d’acciaio senza rete, con cui ci si può ammazzare facilmente. C’è anche la consorte che non si limita in quanto a spese e sogni da realizzare, come il teatro in decadenza da ristrutturare e rilanciare sotto il profilo culturale. E poi si arriva ai tre giovani intorno ai quali ruoterà la tragedia dopo la quale in qualche modo si stabilirà, in termini monetari e umani, il valore di una persona, calcolato freddamente oggi a seconda di chi sei, che lavoro svolgi, quale importanza hai nell’ambito sociale.

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Queste, almeno, erano le intenzioni del libro e portate sullo schermo da Paolo Virzì in maniera spietata e con una efficacia da lasciare inebetiti. Il regista americano ci prova ma si dimentica per strada alcuni personaggi, prima abbozzandoli poi trascurandoli (vedi l’occasionale amante della signora Carrie Manning, l’inutile ed egoista mecenate della situazione) o il povero cameriere (ucciso? sopravvissuto?) oggetto della valutazione che invece sparisce ben presto e di cui non si parla come vittima non solo della strada quanto della valutazione quantificata in capitale umano. Virzì punta proprio su questa questione umano-sociale il suo finale, quando leggiamo che il sistema assicurativo calcola i danni da rimborsare agli eredi di una persona che muore in un incidente stradale l’età, il lavoro svolto, la potenzialità dei guadagni persi e altri coefficienti tecnici. Il capitale umano, appunto. Qui, al proposito, silenzio assoluto, si parla di altro o, meglio, degli altri.

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Ciò che porta a considerare il film parecchio al disotto dell’originale italiano è la caratterizzazione dei personaggi: lì erano così scolpiti da avvertire benissimo vizi (tanti) e virtù (praticamente zero) della maggior parte di essi; qui sono appena abbozzati e poco incisivi. Il Dino Ossola di Fabrizio Bentivoglio (che attore!) era un gaglioffo fallito che puzza di inaffidabilità lontano un miglio (qui necessita spiegarlo); il Giovanni Bernaschi dell’eccellente Fabrizio Gifuni si atteggiava subito al solito fanatico e spericolato sbruffone con villa panoramica e auto di lusso sempre sull’orlo del precipizio (qui bisogna affidarsi al suo sorriso ambiguo e mai affidabile); la Carla di Valeria Bruni Tedeschi era una donna svampita ed effimera (qui, merito di Marisa Tomei, è una tosta, altra pasta); l’ipotetico direttore artistico di Luigi Lo Cascio è un vero personaggio (qui una cometa); la Serena di Matilde Gioli fu una rivelazione, tanto che predissi (azzeccai!) un futuro di attrice di successo.

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A prescindere da questi importanti aspetti decisivi e alla tagliente e scarcastica sceneggiatura italiana che vedeva due firme maiuscole come Francesco Piccolo e Francesco Bruni, oltre al regista stesso, ci sono anche notevoli differenze nel cast e nella sua performance. Bravo Liev Schreiber, bravo Peter Sarsgaard, ottima e sempre in forma la bella Marisa Tomei, riuscita ed interessante la presenza di Alex Wolff, ma sin dal primo istante si viene (almeno è successo a me) rapiti dall’espressività, dal modo ammaliante di attirare l’attenzione, dalla facilità di recitazione di una ragazza che inizialmente non mi ero chiesto chi fosse. Al termine mi sono informato e ho capito che tutto ciò non era casuale, non era un colpo di fortuna. La ragazza si chiama Maya Hawke, figlia di Ethan e Uma Thurman e solo dopo ho capito cosa fossero quelle espressioni, quegli occhi azzurri, quel sorriso malefico che incanta (anche nel film) giovani e adulti. Ma ciò che stupisce sopra ogni cosa è la grande capacità comunicativa della ragazza, il modo diretto di guardare in faccia l’interlocutore, la sfrontatezza espressa così bene conforme al suo personaggio, la figlia irrequieta e indomabile di Drew Hagel, Shannon. Attrice di razza che sta già scalando il lungo sentiero irto di difficoltà che la porteranno al sicuro successo: è davvero troppo brava!

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Regia ordinaria, nessuna impennata con l’aggravante di un approccio timido su un argomento che poteva essere lo spunto per un film più cattivo, graffiante: con quei personaggi si può costruire, come fatto in Italia, una storia tosta con bei personaggi e una questione sociale di portata notevole. Invece questo Marc Meyers si è smorzato sul più bello e la spietatezza che doveva essere l’ingrediente più preponderante si è persa per manifesta inadeguatezza e incertezza. Perfino gli attori sono sembrati afflosciati dalla grinta inesistente. Eccezion fatta per Marisa Tomei e soprattutto per la bella sorpresa chiamata Maya. Maya Hawke. Auguri per il tuo certo futuro!


 
 
 

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