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Il caso Paradine (1947)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 3 set
  • Tempo di lettura: 4 min
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Il caso Paradine

(The Paradine Case) USA 1947 thriller 2h5'

 

Regia: Alfred Hitchcock

Soggetto: Robert Hichens (romanzo)

Sceneggiatura: David O. Selznick, Alma Reville

Fotografia: Lee Garmes

Montaggio: John Faure

Musiche: Franz Waxman

Scenografia: J. McMillan Johnson

Costumi: Travis Banton, Charles Arrico

 

Gregory Peck: Anthony Keane

Alida Valli: Maddalena Anna Paradine

Ann Todd: Gay Keane

Charles Laughton: giudice Thomas Horfield

Louis Jourdan: André Latour

Charles Coburn: sir Simon Flaquer

Ethel Barrymore: lady Sophie Horfield

Leo G. Carroll: sir Joseph

Joan Tetzel: Judy Flaquer

Isobel Elsom: locandiera

Phyllis Morris: signora Carr

John Williams: avvocato Collins

 

TRAMA: Anna Maddalena Paradine, bellissima ed enigmatica donna italiana che vive a Londra, è accusata di aver avvelenato il ricco marito, un anziano colonnello diventato cieco. Su consiglio del proprio legale, ingaggia il brillante principe del foro Anthony Keane, che, nonostante sia felicemente sposato, subisce da subito il fascino dell'imputata.

 

VOTO 7


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Nel 1947 Alfred Hitchcock realizza un film che sembra voler uscire dall’ombra dei suoi soliti schemi. Non c’è suspense nel senso classico, non ci sono scale che scricchiolano né docce assassine. C’è invece un’aula di tribunale, una donna bellissima e un uomo che perde la bussola. E già questo, per Hitchcock, è un crimine, perlomeno per come riesce con la sua enorme abilità a presentarlo, trasportando il suo personale senso del thriller tra il dovere di un avvocato e l’attrazione tra i sessi, presentando il noir sotto forma di melodramma.



La trama è quella di un qualsiasi dramma giudiziario (ma le trame del Sir non sono mai qualsiasi): Anthony Keane (Gregory Peck), avvocato brillante e felicemente sposato, accetta di difendere Mrs. Paradine (Alida Valli), accusata di aver avvelenato il marito cieco. Ma il processo si trasforma presto in un campo minato emotivo. Keane si innamora della sua cliente e la sua lucidità professionale evapora inevitabilmente: come il tè nei salotti londinesi, si potrebbe paragonare, visto l’ambiente dive si svolge. Ma presentando l’argomento del film, in pratica accade che il regista mette sotto accusa – quasi cambiando l’oggetto del processo – il desiderio e non il vero crimine. L’altro crimine, quello che lui escogita con l’attrazione di cui prima.



Il film, difatti, non è tanto un giallo quanto un’indagine sul potere dell’attrazione, che è l’aspetto che attira l’attenzione di Hitchcock - che qui lavora sotto l’ingombrante presenza del produttore David O. Selznick - sembra voler raccontare l’eros come forza distruttiva, ma è costretto a farlo con il freno a mano tirato. Il risultato è un’opera che vibra di tensioni latenti, più che di colpi di scena. Si narra infatti che lui non sia mai andato d’accordo con quel noto produttore, tanto che questo lavoro fu il loro ultimo assieme. Ma seppe dall’alto della sua classe ricavare ancora un gran bel film.



Gregory Peck è impeccabile, ma forse troppo americano per incarnare l’ambiguità del suo personaggio dallo stile inglese. Alida Valli, lanciata da Selznick come la nuova Ingrid Bergman, è magnetica ma trattenuta, come se il suo personaggio fosse stato scritto per un’altra attrice: magari Greta Garbo, che Hitchcock aveva scelto sin dall’inizio. Louis Jourdan, nel ruolo del domestico enigmatico André, è fin troppo elegante per essere credibile come stalliere e andò a finire che il cast sembrava muoversi in un salotto più che in un’aula di giustizia.



Dal punto di vista tecnico, il film è sorprendentemente sobrio: pochi movimenti di macchina, nessuna trovata visiva memorabile. È come se Hitchcock avesse lasciato la sua firma in bianco, costretto a seguire una sceneggiatura che non gli apparteneva. Eppure, sotto la superficie, si intravede il suo sguardo: nei primi piani su Alida Valli, negli sguardi che si incrociano più che nei dialoghi, nel tema del desiderio che corrompe la razionalità. Il risultato è che alla fine ci troviamo davanti ad un film imperfetto ma sempre importante ma alla fine si può dire che non è tra i capolavori del maestro. È solo (e perbacco) un film che mostra cosa succede quando un regista geniale viene imbrigliato da un sistema produttivo che non gli somiglia. Ma proprio per questo è interessante: perché, estraniandoci dalla trama, possiamo prendere nota dei compromessi, delle tensioni creative, di ciò che resta quando il controllo sfugge di mano.



In un’epoca in cui il noir era tutto ombre e pistole, Hitchcock sceglie la toga e il desiderio. E anche se il verdetto critico non è stato favorevole, il film resta una testimonianza preziosa di un maestro che, anche quando sbaglia, lo fa con stile. E che il film abbia avuto una gestazione non facile lo dimostra il fatto che in origine durava addirittura 3 ore e poi fu ridotto più volte alla lunghezza attuale.



Detto che Gregory Peck, pur non adatto al 100% e Alida Valli non era la prima scelta, va per forza annotata la presenza di un altro gigante dello schermo, quel Charles Laughton che fornisce, come sempre, una performance strepitosa. Ultima annotazione: perché è un noir melodrammatico? Perché in tribunale succede di tutto, anche la svolta passionale: dopo che l’avvocato mette sotto pressione il giovane Latour, l’amante della vedova, fino a fargli ammettere la relazione clandestina, arriva la notizia tragica del suo suicidio, ed allora la signora Paradine decide di vendicare la morte accusando in aula l’avvocato di essersi innamorato di lei: la situazione per Keane si complica così in maniera inesorabile. È davvero una novità: Hitchcock tra toga e desiderio!


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Riconoscimenti

Oscar 1948

Candidatura miglior attrice non protagonista Ethel Barrymore

 


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Il Cinema secondo me,

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cinefilo da bambino

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