Il colibrì (2022)
- michemar

- 24 apr 2023
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 13 ago

Il colibrì
Italia, Francia 2022 dramma 2h6’
Regia: Francesca Archibugi
Soggetto: Sandro Veronesi (romanzo)
Sceneggiatura: Francesca Archibugi, Laura Paolucci, Francesco Piccolo
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Esmeralda Calabria
Musiche: Battista Lena
Scenografia: Alessandro Vannucci
Costumi: Lina Nerli Taviani
Pierfrancesco Favino: Marco Carrera
Kasia Smutniak: Marina Molitor
Bérénice Bejo: Luisa Lattes
Laura Morante: Letizia Carrera
Sergio Albelli: Probo Carrera
Alessandro Tedeschi: Giacomo Carrera
Benedetta Porcaroli: Adele Carrera
Massimo Ceccherini: Duccio Chilleri
Fotinì Peluso: Irene Carrera
Francesco Centorame: Marco Carrera da ragazzo
Pietro Ragusa: Luigi Dami Tamburini
Valeria Cavalli: madre di Luisa
Nanni Moretti: Daniele Carradori
TRAMA: La vita di Marco Carrera, dagli anni '70 in poi, tra le tante relazioni che si sono incrociate lungo il suo percorso.
Voto 5,5

Cercando di puntare tutta l’attenzione sulla sensibilità del protagonista, il racconto si tuffa nell'universo di una famiglia alla ricerca della felicità in mezzo a perdite e disallineamenti. Attraverso una narrazione non lineare che passa tra gli anni '70 e '90, Francesca Archibugi, scrivendo anche la sceneggiatura assieme a Laura Paolucci e Francesco Piccolo, costruisce una storia di amore platonico e devozione familiare, che tenta di emozionare e commuovere lo spettatore. Tratto dall'omonimo romanzo di Sandro Veronesi, la trama è guidata dalla forza dei ricordi, che permettono salti nel tempo in una trama liquida, fluida, coinvolgente. Anzi, anche troppo. Contrariamente a come si usa di solito, cioè basandosi su un presente chiaro e indicato, il film sviluppa la lunga trama non con tanti flashback ma saltando continuamente nel tempo, avanti e indietro, quasi all’impazzata, senza un punto fisso di partenza, obbligando il pubblico a ricostruire mentalmente la logica temporale, planando solo nel finale quando i superstiti sono invecchiati ed il protagonista, gravemente ammalato, prende una decisione definitiva.

La traiettoria di Marco Carrera, il protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino, è permeata da coincidenze fatali, perdite irreparabili e amori assoluti. L'amore della sua vita è LuisaLattes (Bérénice Bejo), una ragazza bella e insolita che incontra in riva al mare e con la quale non potrà mai consumare la sua passione. Nella sua vita coniugale, al fianco di Marina (Kasia Smutniak) e della figlia Adele (Benedetta Porcaroli), Marco cerca di dimenticare la donna, ma l'ombra di questo amore non lo abbandona e lo porta a una serie di tragedie che influenzano la sua vita. Per fare ciò, il film affronta temi importanti come la salute mentale e la rottura dei tabù. Nanni Moretti interpreta lo psicoanalista di Marina e gioca un ruolo chiave nella storia, mostrando come sia possibile rompere il segreto professionale per un bene superiore, quando, insomma, si rivela più che necessario. Ma questo passaggio, presentato nei minuti iniziali, sembra alquanto forzato, quasi surreale, accentuato dalla enfatica (ma caratteristica) interpretazione tanto personale del regista-attore. Sinceramente, ho trovato questo incipit abbastanza imbarazzante, preludio di qualcosa di sconvolgente che in realtà non succede.

La Archibugi, evidentemente per restare quanto più fedele possibile al romanzo originario, usa la fantasia dei personaggi come strumento importante per creare una trama complessa e profonda, ma la realtà si presenta spesso deludente e così l'immaginazione e l’evasione psicologica dei tanti personaggi diventano l'unico modo per sopravvivere. Invece, come contrappasso, l’impassibilità di Marco - sensibile sì ma troppo statico caratterialmente, tanto da essere presto soprannominato dal padre Probo (Sergio Albelli) “colibrì” – assume il compito di filo conduttore, continuamente accusato da tutti i suoi familiari di non prendere mai in mano la situazione e reagire di conseguenza: egli è come se assistesse continuamente agli eventi senza mai influenzarli più di tanto. L’unico scopo della sua vita è prima la figlia Adele e poi, dopo le varie perdite, la nipotina, che diventa il metronomo della sua esistenza.

La narrazione non lineare non aiuta, la frammentazione temporale e i tanti personaggi, a volte anche transitori, non sempre vengono delineati con precisione e l’insieme dà l’impressione della provvisorietà, con troppo elementi e avvenimenti che si succedono. Ovvio che condensare in due ore un romanzo corposo di oltre 350 pagine non era facile, anzi una dura prova di regia, ma almeno si poteva pensare di puntare su gli episodi più importanti, chissà, ed invece è un susseguirsi di andate e ritorni nel tempo, di apparizioni di amici, di partenze, di abbandoni, di malattie. Una saga degna di una serie.

Gli attori si impegnano e sono tanti nomi eccellenti del nostro cinema, a cominciare dal protagonista Pierfrancesco Favino, il quale, per performare il personaggio costantemente fermo, che consuma tutte le sue energie per restare nella stessa posizione, sceglie di assumere una espressione-non-espressione e a questo punto sorge una domanda lecita: possibile che in Italia ci si debba affidare ciecamente solo e soltanto a questo attore? Non riesco ad immaginare che non ci fosse un altro forse meglio adatto. E, seppure apprezzabili per zelo e ardore, qualche prestazione va oltre le righe (vedi la Marina di Kasia Smutniak).

No, non sono riuscito ad appassionarmi più di tanto, ad emozionarmi come nelle buone intenzioni dell’autrice, e come probabilmente in quelle primarie dello scrittore, che, in ogni caso, portò a casa il Premio Strega del 2020. Eccellente la fotografia di Luca Bigazzi, artista sempre necessario per fare un film importante in Italia.
Riconoscimenti
David di Donatello 2023:
Candidatura miglior sceneggiatura
Candidatura miglior trucco
Candidatura migliore canzone






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