Il colpevole - The Guilty (2018)
- michemar

- 14 lug 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 20 mag 2023

Il colpevole - The Guilty
(Den skyldige) Danimarca 2018 thriller 1h25’
Regia: Gustav Möller
Sceneggiatura: Gustav Möller, Emil Nygaard Albertsen
Fotografia: Jasper Spanning
Montaggio: Carla Luffe Heintzelmann
Musiche: Carl Coleman, Caspar Hesselager
Scenografia: Gustav Pontoppidan
Costumi: Ida Skov Gudmundsen-Holmgreen
Jakob Cedergren: Asger Holm
Jessica Dinnage: Iben
Omar Shargawi: Rashid
Johan Olsen: Michael
Jakob Ulrik Lohmann: Bo
Katinka Evers-Jahnsen: Mathilde
Operatore di un servizio d'emergenza ed ex ufficiale di polizia, Asger Holm risponde alla chiamata di una donna rapita. Quando la conversazione si interrompe, si mette sulle tracce della donna e del rapitore. Con il telefono come unica arma, Asger inizia una corsa contro il tempo per salvare la donna prima di rendersi conto di essere alle prese con un crimine molto più grande di quello che credeva.
Voto 7,5

Non è detto che portare la tensione di un thriller a livelli altissimi, sfiorando punte da horror, sia una caratteristica solo del genere del terrore. No. Lo dimostra ampiamente questo eccellente film che riesce a trasformare una tipica situazione di un semplice e apparente poliziesco in un’opera di tale suspense da far trattenere in più momenti il fiato e di provare paura. E ciò succede per merito di due aspetti principali: la regia e la sceneggiatura. La prima è tutto merito di un giovanotto svedese, Gustav Möller, che nel suo esordio nel lungo dimostra una tale sicurezza da sembrare un vecchio cineasta ben conscio degli obiettivi da raggiungere e di ciò che vuole realizzare. La seconda (sempre dello stesso regista assieme a Emil Nygaard Albertsen) perché è una scrittura di ferro, ben controllata e bilanciata, nel senso che inizia dolcemente e, come invitando lo spettatore a seguire con attenzione, porta ad una progressiva e inesorabile suspense che sa di claustrofobico, in cui il campo di visione è solo quello che viene mostrato, con dialoghi tra campo e fuoricampo, lasciando spazio solo all’atmosfera che si crea e ai dettagli che bisogna cogliere. Tutto ambientato in una grande stanza divisa in due da un muro di cristallo per isolare una delle varie postazioni in cui gli addetti al 112 danese rispondono alle chiamate più disparate dei cittadini.

Questo giovane esordiente svedese, solo 30enne all’epoca del set, ebbe l’idea del film vedendo un documentario su una donna rapita, Hae Min Lee, successivamente uccisa. I sospetti sin da subito si concentrarono sul fidanzato, poi arrestato, e i creatori del documentario che ricostruiva la vicenda usarono la registrazione della vera chiamata di emergenza della donna. Durante la telefonata, la donna viaggiava in macchina seduta accanto a colui che l'aveva rapita e ciò la portava a parlare quasi in codice per non farsi scoprire dal compagno. È più o meno, però con qualche differenziazione importante, quello che viene raccontato da questo film ma, attenzione, non filmato ma solo udito e immaginato da noi spettatori. Ricordo bene che da ragazzino assistetti ad una riunione in cui l’oratore ci spiegava che la lettura, oltre che istruttiva, portava ad un fenomeno molto importante per il nostro cervello: quella di indurre continuamente la mente a tradurre in immagini le parole che si leggono. È una lezione che non ho mai dimenticato e a cui faccio spesso caso quando (quasi tutti i giorni) sto leggendo un libro. Ed è proprio ciò che questo bel film ci spinge a fare. Siccome l’intera pellicola si sviluppa tramite le telefonate che il poliziotto Asger Holm riceve ed effettua, noi siamo costretti senza pausa ad immaginare ciò che sta succedendo all’altro capo del telefono: il posto da cui arriva la chiamata, il tipo di persona che interloquisce, le espressioni che assume, l’agitazione che la coglie. Tutto. E tutto solo concepito con la fantasia, perché il regista non mostra nulla, non fa uscire la macchina da presa da quello stanzone, soprattutto non si allontana dal primo piano del viso dell’agente. Tranne qualche inquadratura media nel cui rettangolo entra qualche collega al lavoro vicino al protagonista, per il resto l’obiettivo è tutto e solo puntato sul poliziotto che prima alquanto freddo poi sempre più coinvolto diventa protagonista non solo del film ma dell’intera trama per come la fa sviluppare egli stesso.

Sin dall’inizio si intuisce che Asger è relegato nel call center della polizia in quanto allontanato dal servizio che normalmente svolgeva a causa di un grave problema occorsogli durante lo svolgimento delle sue mansioni sulla strada. Solo al termine diventerà chiaro come si fosse trovato in difficoltà con un’operazione in cui ha dovuto sparare, motivo per il quale il giorno seguente sarà in tribunale per essere giudicato. È il motivo, tra l’altro, per cui lo cogliamo molto nervoso e i colleghi stessi lo guardano con curiosità, tenendosi a distanza per lasciarlo tranquillo nel suo momento difficile. Ciononostante, l’agente si trova ad aver a che fare con una chiamata difficile da gestire, che si aggrava sempre più e che alla fine comincia a diventare molto complicata, con scoperte davvero sorprendenti. È qui che da thriller psicologico il film offre spunti orrorifici e maniacali, fino appunto a dare l’idea, come detto all’inizio, di un vero horror impensabile fino a quando non vengono intuiti alcuni particolari raccapriccianti, ribaltando completamente la situazione e il giudizio – del poliziotto e di noi spettatori – sui vari personaggi. Un vero doppio salto mortale carpiato in cui non solo il film fa un salto di genere, seppur per pochi attimi, ma fa capovolgere le sensazioni che si erano provare fino ad un istante prima delle rivelazioni.

Quasi sulla falsariga dell’ottimo Locke (recensione), il regista ci fa lavorare di fantasia e di intuito, facendoci continuamente lavorare con la mente per immaginare ciò che realmente stia accadendo. Un lavoro soprattutto psicologico tra i personaggi, molti dei quali non si vedono mai: il protagonista Asger Holm con chi sta all’altro capo del telefono, con chi l’ha rapita, con la piccola Mathilde lasciata solo con il fratellino, con la collega del pronto intervento, con la pattuglia che insegue, con il collega con cui ha vissuto la sventura della sua carriera in rovina. Insomma, un continuo rimbalzo di telefonate che ci fanno spostare l’attenzione da un luogo ad un altro e tutto senza mai spostarci di location: tutti chiusi nella stanza dei telefoni della polizia, lui, i colleghi e noi che assistiamo. Un crescendo di tensione degno dei migliori thriller degli ultimi anni, una apprensione senza pausa che lievita di minuto in minuto, di telefonata in telefonata, di voce in voce, di squillo in squillo. Suspense e accenni di claustrofobia: tutti con gli occhi puntati sulle espressioni e gli spostamenti dello sguardo di Asger, perché da quello che esprime, non solo a parole, comprendiamo se la situazione precipita o migliora.

Bravo, bravissimo Gustav Möller ma altrettanto bravo Jakob Cedergren, un attore che riesce a tenere in mano tutti gli 85 minuti del film, sempre sullo schermo, buona parte dei quali con una cuffia da cui anche egli deve ascoltare e decidere i passi successivi, anche se non erano tutti di sua competenza, perché avrebbe potuto sin dal primo istante girare a chi di competenza la soluzione del problema. Jakob Cedergren è un attore noto in Svezia ma poco conosciuto dal pubblico italiano e questo film dimostra come meriterebbe sicuramente altre presenze importanti. Del regista invece sentiremo parlare per forza.






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