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Il figlio dell'altra (2012)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 5 mar 2021
  • Tempo di lettura: 3 min

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Il figlio dell'altra

(Le fils de l'autre) Francia 2012 dramma 1h45'


Regia: Lorraine Lévy

Sceneggiatura: Noam Fitoussi, Lorraine Lévy, Nathalie Saugeon

Fotografia: Emmanuel Soyer

Montaggio: Sylvie Gadmer

Scenografia: Miguel Markin

Costumi: Valérie Adda, Rona Doron


Emmanuelle Devos: Orith Silberg

Pascal Elbé: Alon Silberg

Jules Sitruk: Joseph Silberg

Mehdi Dehbi: Yacine Al Bezaaz

Bruno Podalydès: David

Areen Omari: Leïla Al Bezaaz

Ezra Dagan: rabbino

Khalifa Natour: Saïd Al Bezaaz

Mahmud Shalaby: Bilal Al Bezaaz


TRAMA: Joseph si appresta a fare il servizio militare per l'esercito israeliano quando scopre di non essere il figlio biologico di Orith e Alon, i genitori di cui non ha mai dubitato. Al momento della nascita, è stato scambiato con Yacine, un bambino appena venuto al mondo da una coppia palestinese che vive in Cisgiordania. La scoperta di quanto avvenuto quel giorno interrompe brutalmente la tranquillità di entrambe le famiglie, costrette a riconsiderare le loro identità, i loro valori e le cose in cui hanno sempre creduto. I due ragazzi invece provano a domandarsi alcune cose sulla loro identità e sul loro destino.


Voto 7


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Quando una questione è difficile, quando una situazione è incresciosa, quando all’occhio maschile pare non ci sia soluzione possibile o accettabile, insomma nei casi spinosi e acri state tranquilli che se interviene lo sguardo sensibile di una donna, quindi la razionalità prettamente femminile, ecco che come d’incanto il contesto si addolcisce e, subendo la logica della comprensione e della dolcezza, trova la via d’uscita. Perfino nella acerrima questione israelo-palestinese una donna, la regista Lorraine Lévy, cambia la visuale e ne sa trarre una lezione positiva, certamente idealistica, forse improbabile, ma che accende un barlume di speranza.


La Lévy, una francese dal chiaro cognome ebreo, coglie l’occasione per parlare di pace e convivenza tra due popoli nemici da un’idea solo apparentemente strampalata, ma che sappiamo che può, per errore banale ma grave, ma possibile, succedere: lo scambio, dovuto a negligenza, di due neonati in una clinica al momento della nascita. Scambiando letteralmente le esistenze di due bambini, la regista produce l'occasione, per occupati e occupanti, di osservare, vedere e magari anche capire l'altro, uscendo dal quell'imbuto in cui il mondo – quel mondo - pare essersi infilato senza apparente via d’uscita. Forse anche perché non la si vuol trovare, ma questa è, appunto, una versione tutta al maschile.

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Cosa succede ad una mamma quando scopre che quel bel ragazzo che ha cresciuto con amore e trepidazione non è quello che lei ha partorito? Può smettere tutto ad un tratto di volergli bene, se solo un attimo prima era disposta anche a dare la propria vita per lui? E poi, cosa può provare dentro di sé verso un altro giovanotto che non ha mai conosciuto ma che scopre essere sangue del suo sangue? che ha tenuto in grembo per nove mesi? Immaginiamo l’incontro straniante delle due famiglie la prima volta: come reagiranno i padri? come le madri? Tornando a quello descritto nell’incipit, è più probabile che i maschi si metteranno scetticamente in posizioni di difesa (l’israeliano è addirittura un colonnello dell’esercito, sempre in guerra contro l’altro), mentre le due donne guarderanno con identica curiosità i due giovanotti, pronte a donare il cuore al figlio ritrovato senza togliere nulla a quello cresciuto. Perché non esistono limiti né quantità misurabili all’amore, specialmente a quello materno.

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Se non fossi tu, chi saresti? Mentre la Levy si concentra sulle nozioni di connessione familiare e identità etnica, la forza di questo film è nei contrasti del paesaggio locale. Mentre Tel Aviv è una metropoli fiorente, la Cisgiordania sembra una terra desolata, ambientata mille anni nel passato. È questo accostamento di luoghi - più che i rapporti tra i figli e le rispettive famiglie “nuove” - che provoca la più autoriflessione e nello stesso tempo svela e conferma ciò che sappiamo di quelle terre così differenziate.

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Un bellissimo e delicato film molto ben raccontato: solo le due mamme hanno l'intelligenza e la sensibilità per prendere dal verso giusto la faccenda. Lorraine Lévy è abile ad evitare le insidie di un dramma familiare e la banalità della soluzione più comoda e mielosa e, anche se contrappone il modello classico degli uomini che si guardano in cagnesco e delle mogli che invece entrano presto in sintonia d’onda, punta dritto l’obiettivo sul rapporto che nasce tra i due ragazzi, ormai cresciuti, che iniziandosi forzatamente a frequentare riescono a stabilire un principio fecondo di comprensione e amicizia. Inoltre, non sono solo Joseph e Yacine ad essere sfidati, ma anche il pubblico. Invitando lo spettatore a entrare in empatia con entrambe le famiglie, Levy aiuta a sradicare i loro atteggiamenti esistenti nei confronti di entrambi i territori mentre si guarda lo svolgersi della narrazione.

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Si potrà obiettare che sia uno sguardo troppo roseo e ottimista, ma è un piccolo barlume di apertura, una crepa in quel maledetto muro che divide due popoli. Una crepa che ha il dolce sorriso e il tenero sguardo di due donne che riescono ad esprimere solo speranza: Areen Omari e Emmanuelle Devos sono l’accoglienza e la possibilità fatte persone.



 
 
 

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