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Il mio amico Eric (2009)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 11 nov 2023
  • Tempo di lettura: 7 min

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Il mio amico Eric

(Looking for Eric) UK/Francia/Italia/Belgio/Spagna 2009 dramma/commedia 1h56’


Regia: Ken Loach

Sceneggiatura: Paul Laverty

Fotografia: Barry Ackroyd

Montaggio: Jonathan Morris

Musiche: George Fenton

Scenografia: Fergus Clegg

Costumi: Sarah Ryan


Steve Evets: Eric Bishop

Éric Cantona: se stesso

Stephanie Bishop: Lily

John Henshaw: Meatballs

Gerard Kearns: Ryan

Stephan Cumbs: Jess

Lucy-Jo Hudson: Sam

Matthew McNulty: Eric giovane

Max Beesley: padre di Eric


TRAMA: Eric è un postino super appassionato di calcio la cui vita sta andando a rotoli. Per fortuna Eric Cantona, in veste di filosofo, diventa il suo coach mentale.


Voto 7

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Il ventunesimo film dell’immenso Ken Loach come minimo sorprende. E non per il cambio di obiettivo, essendo il suo lavoro continuo e proficuo un martello indeformabile, un hammer, per dirla alla inglese, perché lui è costantemente sul pezzo, magari – qualcuno potrà dire che noia, che monotonia – sempre con gli stessi argomenti senza variazione, ma anche qui il protagonista è uno sfortunato, un loser, uno che fa fatica e lui ci pone nella posizione, come al solito, di fare il tifo affinché risalga la corrente. No, la sorpresa non è nelle mala-vicissitudini del protagonista di turno (perché è ancora così) ma nel registro, nel genere, nel trattamento del tema e della trama. Insomma, siamo davanti ad una commedia (!) piuttosto che nel consueto dramma. Non è che non ci siano le solite problematiche che caratterizzano il suo cinema, ma stavolta la sua poetica – guai a non considerarla tale – è narrata con la stessa allegria dei buontemponi che animano la compagnia degli amici del povero Eric Bishop, uomo sull’orlo del precipizio, pronto ad affogare nei guai e, per fortuna sua, sostenuto da un giro di colleghi e compari che lo tengono a galla.

Eric è un postino cinquantenne con molti rimpianti, alquanto fuori di testa, annebbiato da qualche birra di troppo e dall’erba che conserva sotto una mattonella, che fuma per non pensare ai guai. La primissima sequenza è il suo biglietto da visita e ognuno di noi si rende immediatamente conto che è proprio in balia del dissesto mentale. Vive senza la moglie e la figlia prossima alla laurea, ma ci vorranno molti minuti di film per capire perché è restato solo e nella pessima compagnia di due giovanotti che udiamo definire figliastri, in quanto lasciatigli dalla ex seconda moglie. Ma cosa gli sarà successo! Che sia fuori di sé lo si capisce subito, osservandolo affrontare con la sua auto una rotonda contromano in cui non si ferma neanche con gli strombazzamenti delle altre macchine: non si è distratto, è soltanto una sfida contro il mondo e se stesso, solo perché ha cercato di parlare con la figlia Sam, incontrata con la piccolissima nipotina che ancora non conosce, e questa lo ha cacciato in malo modo. Quando si risveglia in ospedale, a seguito dell’inevitabile incidente che ha causato, lo aspetta l’amico più generoso e sincero che ha: Meatballs (John Henshaw, che Dio lo benedica, che simpaticone: sembra il gemello del mio amato Joe Cocker e lo ritroveremo tre anni dopo in La parte degli angeli, ancora una volta nel ruolo dell’angelo salvatore). Al lavoro lo aspettano tutti, anche se purtroppo notano che è svagato e lentissimo nel distribuire le buste nei casellari, figuriamoci poi in giro per le case. Tanto che un giorno scopriranno a casa sua un armadio pieno di…

La mente, insomma, non è lucida e gli manca, in maniera evidente, la serenità e la tranquillità, specialmente da quando ha notato che i due figliastri sono nel giro di un piccolo boss che li metterà di sicuro nei guai, prima o poi. Non sa più dove sbattere la testa e cosa fare per riallacciare i rapporti con la figlia. Con la moglie Lily neanche a pensarci, la quale ne ha buon motivo. La verità, però, è che lui non ha colpa di ciò che era successo tanti anni prima e scoprirlo, da parte nostra, diventa un dispiacere. Povero Eric! Gli amici, a cominciare dal buon Meatballs, lo convincono che avrebbe bisogno di un lavoro psicologico su se stesso, di un buon esempio da seguire, di un ideale che lo faccia sentir meglio. E chi meglio di quel gigantesco poster di Eric Cantona, ex asso assoluto del Manchester United, che campeggia nella sua stanza? Chi meglio del campione, francese eletto idolo dei tifosi inglesi, può ispirarlo con la sua grinta e volontà di vincere sempre e in ogni occasione? A furia di guardarlo e parlargli, un giorno se lo ritrova in casa: vero o falso, in carne ed ossa o completamente immaginato dalla sua mente instabile, ha poca importanza. La realtà è che con lui finalmente parla della vita e dei suoi problemi, e soprattutto della grande voglia di ritrovarsi a parlare con la sempre amata e mai dimenticata, carissima Lily.

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Nel rapporto visionario, la connessione tra i due uomini diventa essenziale per la sopravvivenza psicologica del postino, una sorta di terapia senza lettino ma alimentata da canne e vino. Colloqui che a volte allarmano il nostro protagonista per la durezza degli incitamenti del suo idolo e per le sue infinite frasi di filosofia spicciola. “Se pianti carciofi cresceranno spine”, “Quando i gabbiani seguono il peschereccio è perché pensano che verranno gettate in mare delle sardine”, “Ci sono sempre più scelte di quante crediamo. Sempre. Più possibilità”, “La più nobile vendetta è il perdono” e così via. Aforismi apparentemente stupidi ma moralmente validi, che hanno un profondo significato popolare e quindi significativi, di esperienza. I due si confidano, diventano amici, il tifoso evoca gli spettacolari gol del bomber, gli chiede come abbia fatto a resistere alla pressione della celebrità e al ritiro dall’attività, scoprendo così la sua passione per la tromba, con cui, nel film, Cantona si esibisce con la personale esecuzione della Marsigliese. Più lo ascolta più si convince che anche lui può farcela, nonostante i pericoli fisici dopo lo scontro azzardato con l’infido boss da cui viene fuori molto malconcio. Ormai siamo al punto che necessita una reazione e la soluzione gliela trovano i fidati amici, con in capintesta l’affezionato e preoccupato amicone Meatballs: basterà organizzare tre autobus di tifosi dei Red Devils ben armeggiati e mascherati da… (no spoiler!) così divertente che nel punto più alto del pericolo e del dramma, Ken Loach ci fa scoppiare dal ridere, come un qualsiasi regista di commedie. La rivincita, la tranquillità conquistata, la stima dei figliastri, la famiglia che si sta ricomponendo, specialmente in occasione della festa di laurea di Sam, in cui finalmente vediamo Eric sbarbato e in abito scuro come un vero signore, sono non solo la vittoria del bene sul male ma soprattutto il traguardo della felicità e della serenità. Cosa pretendere di più? Il regista ci aveva abituati a storia altamente drammatiche, a quesiti esistenziali importanti, senza quasi mai dare una risposta ma solo domande, forse retoriche ma necessarie, come solo lui sa fare. E con una commedia, stavolta, ci offre un quadro finale da sorriso o al massimo da emozione di soddisfazione. La forza, infatti, Eric doveva trovarla in sé e, come dettava il suo celebre doppio, nell’ambito degli amici. Altrimenti, che ci stanno a fare?

Come spesso accaduto, il cast tecnico è composto dai soliti sodali, in tutti i reparti, in particolare dal fidato sceneggiatore Paul Laverty, ancora una volta in uno slang inglese locale che gli anglosassoni di altri Paesi fanno fatica a capire, da cui ancora l’urgenza dei sottotitoli. Quindi, dialoghi veraci e realistici, recitati come attori professionisti in un cast artistico che vede moltissime facce del popolo, come piace a Loach, ma tutti davvero credibili e bravi. Lui è un mago che fa sembrare ogni componente un esperto attore. E Cantona? Uno spettacolo di sicurezza (“Io non sono un uomo, io sono Cantona!”), la stessa che amava esibire nel rettangolo di gioco, fino a diventare uno dei miti di una delle squadre più famose e più vincenti al mondo. Fino al punto che si può affermare che diventa, in uno che certamente non è tra i migliori in assoluto tra i film del regista britannico, la carta vincente dell’intera opera, oltretutto perché lui fa orgogliosamente se stesso, ma, attenzione, in una stanza che può ricordare lo spogliatoio di una squadra che deve caricarsi prima di scendere in campo. E non è tutto, in quanto l’ex campione è stato persino il produttore esecutivo! What else? Senza ovviamente trascurare la bravura sincera e tangibile del simpatico Steve Evets, ottimamente e visibilmente nel ruolo che più gli si confà. A parte va fatto un discorso su John Henshaw: il suo Meatballs è l’essenza della poetica artistica di Loach, dove la vicinanza umana conta più di ogni altro aspetto nei momenti difficili delle persone, in particolar modo di quelle tenute ai margini della società. E il rotondo attore è davvero l’uomo giusto nel ruolo giusto: è lui che sarà infatti premiato.

Ken Loach ama questi personaggi, lo si nota, è evidente, e dà loro forza e convinzione facendo esibire gli attori al loro meglio, a loro agio, perfettamente nei panni. Basando tutto o, come frequentemente, sulla lotta di classe – concetto ormai abbandonato dalla quasi totalità degli autori progressisti di oggi – oppure pedinando gente umile che ha difficoltà e risolvere la vita quotidiana. Questa volta, oltre che sfruttare lo stilema da commedia, è andato anche oltre per un personaggio disagiato di suo, per motivazioni psico-familiari: un innocente giovanotto che cercava la felicità avendo trovato l’amore a primo colpo, ma stravolto da un genitore scellerato.

Non sarà certamente il miglior Loach ma lui è sempre lì, vicino ai casi più umani, a chi ha bisogno di una mano, a chi non tutte le colpe per essersi trovato in quelle condizioni, a chi spera di migliorare l’esistenza, a coloro che non saranno mai degli eroi, come invece piace raccontare agli altri. E lo fa con grande umanità, comprensione, invitandoci a guardarci intorno e non sempre verso i privilegiati di questa società annichilita dal rampantismo e dal liberalismo che non perdona gli errori. Lui, qui, porta Eric in paradiso, in un paradiso accessibile dove per arrivarci basta la buona volontà. Senza moralismo, quello mai, perché lui non è un predicatore da omelie, ma un Uomo che protesta contro le ingiustizie sociali portandoci esempi concreti e quotidiani.

A volte penso che sia semplicemente un autore che non ci meritiamo, ma di cui abbiamo bisogno.

Viva Eric, viva Ken!

Riconoscimenti

2009 - Festival di Cannes

Premio della giuria ecumenica

2009 - British Independent Film Awards

Miglior attore non protagonista a John Henshaw

2011 - Premio Magritte

Migliore coproduzione


 
 
 

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