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Il processo ai Chicago 7 (2020)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 30 ott 2020
  • Tempo di lettura: 8 min

Aggiornamento: 25 dic 2023


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Il processo ai Chicago 7

(The Trial of the Chicago 7) USA/UK/India 2020 dramma biografico 2h9’

Regia: Aaron Sorkin

Sceneggiatura: Aaron Sorkin

Fotografia: Phedon Papamichael

Montaggio: Alan Baumgarten

Musiche: Daniel Pemberton

Scenografia: Shane Valentino

Costum: Susan Lyall

Sacha Baron Cohen: Abbie Hoffman

Joseph Gordon-Levitt: Richard Schultz

Michael Keaton: Ramsey Clark

Frank Langella: Julius Hoffman

John Carroll Lynch: David Dellinger

Eddie Redmayne: Tom Hayden

Mark Rylance: William Kunstler

Yahya Abdul-Mateen II: Bobby Seale

Alex Sharp: Rennie Davis

Jeremy Strong: Jerry Rubin

Noah Robbins: Lee Weiner

Daniel Flaherty: John Froines

Ben Shenkman: Leonard Weinglass

Kelvin Harrison Jr.: Fred Hampton

Caitlin FitzGerald: Daphne O'Connor

Alice Kremelberg: Bernadine

J. C. MacKenzie: Thomas Foran

John Doman: John N. Mitchell

Wayne Duvall: Paul DeLuca

Damian Young: Howard Ackerman

C. J. Wilson: Scott Scibelli

TRAMA: Quella che doveva essere una manifestazione pacifica alla convention del partito democratico statunitense del 1968 si trasforma in una serie di scontri violenti con la polizia e la Guardia nazionale. Gli organizzatori delle proteste, tra cui Abbie Hoffman, Jerry Rubin, Tom Hayden e Bobby Seale, vengono accusati di cospirazione e incitamento alla sommossa in uno dei processi più noti della storia americana.


Voto 8,5

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I Chicago Seven sono stati un gruppo di attivisti (Abbie Hoffman, Jerry Rubin, David Dellinger, Tom Hayden, Rennie Davis, John Froines e Lee Weiner) accusati dal governo federale degli Stati Uniti di associazione a delinquere, istigazione alla sommossa e altri reati relativi agli scontri tra manifestanti e polizia avvenuti a Chicago durante la Convention del Partito Democratico del 1968, Il processo ai Chicago Seven, durato dal settembre 1969 al febbraio 1970, si trovò al centro di un acceso dibattito nazionale a causa della sua presunta natura di processo-farsa motivato dal fatto che gli imputati ricoprissero ruoli di spicco all'interno del movimento controculturale e di opposizione alla guerra del Vietnam, più che da una loro reale colpevolezza. Al termine del processo, cinque imputati vennero riconosciuti colpevoli di istigazione alla sommossa, mentre vennero tutti assolti dall'accusa di associazione a delinquere; inoltre, il giudice condannò tutti gli imputati e il loro avvocato William Kunstler a pene severe per oltraggio alla corte. Tuttavia, tali accuse furono successivamente revocate e, nel 1972, la corte d'appello prosciolse gli imputati da tutte le accuse. Come racconta uno dei protagonisti, Jerry Rubin, in Fallo!, libro riguardante i fatti accaduti in quei tempi, “I pigs ricevettero l’ordine di cacciarci e, mentre le luci abbaglianti delle tv trasformavano la strada buia in una Broadway mondiale, i poliziotti spararono gas, bastonarono giornalisti, spinsero vecchie signore dentro le vetrine dei negozi, schiacciarono facce e cercarono di distruggerci. Gli hippies costruirono barricate, appiccarono fuoco, rovesciarono camion e dettero il via al saccheggio.

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Questi i particolari salienti di una vicenda che più sconcertante non può sembrare all’occhio e alla coscienza di una qualsiasi persona dalla mente aperta e democratica. E il più che entusiasmante film di Aaron Sorkin, noto sceneggiatore dalla penna che sa usare come pochi per raccontare e scoprire nervi tesi e doloranti del corpo di una nazione, ma che quando si dedica le poche volte alla regia si dimostra benissimo all’altezza delle attese (mai disattese), ne spalanca le porte, ci mostra con spietata franchezza i fatti realmente avvenuti alternando con grande sagacia frame di reperti storici in bianco e nero e sequenze della sua opera. Sorkin dà inizio alla danza rock del suo film con un montaggio frenetico ed efficace, mostrando i veri filmati degli attentati scioccanti di Martin Luther King e di Robert Kennedy e quello dell’estrazione a sorte (!) delle date di nascita dei giovani americani che il governo statunitense aveva organizzato per scegliere con casualità chi doveva partire per il Vietnam, da dove, come sappiamo bene, non tornarono vivi più di 58 mila soldati e più di 1.700 dispersi, mentre i feriti furono circa 303.000. Forte fu la contestazione giovanile e in particolare quella studentesca e della comunità nera, buona quest’ultima, allora come oggi, ad essere considerata come e più dei bianchi per essere mandata in prima linea.

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Tra i contestatori albergavano giovani radicali che si ispiravano al pensiero e ai principi del padre della patria Abraham Lincoln, ragazzi, uomini e donne dallo spirito pacifista e non violento, moderati che speravano in un sereno ed auspicabile confronto con le autorità e i governanti, collettivi di studenti pronti a manifestare contro queste decisioni federali. A questi si aggiunsero, ma erano già appartenenti a queste categorie, gli adepti alla moda molto in voga tra i giovani degli anni ’60: gli hippies. Gente che contestava l’establishment, la violenza, il potere, predicando l’amore libero e l’uso delle droghe. Tutti questi gruppi, così eterogenei ma uniti dalla voglia di contestare le idee guerrafondaie del governo americano, si dettero appuntamento a Chicago durante il Convegno del Partito Democratico del 1968 per una manifestazione essenzialmente pacifica. Ma la Guardia Nazionale, la polizia locale e ovviamente l’FBI non solo non stettero a guardare, ma intervennero pesantemente facendo poi ricadere la colpa sulla folla, che, quasi inerte, subì pesantissime cariche a base di fumogeni, manganelli usati violentemente, arresti, ferimenti. E in più, processi, in particolare quello preso in esame in questo film stupendamente efficace, valido, opportuno, e soprattutto istruttivo per chi non conosce gli avvenimenti.

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Oltre ovviamente a rimanere sbalorditi dall’arroganza del potere e in particolare del giudice assolutamente imparziale del processo celebrato e narrato molto bene dal film. Un giudice interpretato magistralmente da Frank Langella (che ha recentemente definito il suo personaggio “a son of bitch”), magistrato che condizionò negativamente e scorrettamente l’andamento del dibattito in aula con conseguenze gravi ai fini delle pene comminate, fortunatamente cambiate nei processi successivi. Un giudice, in breve, al servizio dell’ala conservatrice del potere. Non servì opporre obiezioni continue da parte dei difensori degli imputati, che inizialmente erano otto - in quanto ai sette incriminati di essere gli aizzatori dei disordini e gli autori di discorsi per fomentare alla violenza le migliaia di seguaci che chiedevano solo una spazio libero per riunirsi, discutere, ascoltare musica, fare sesso e fumare spinelli, il tutto sempre pacificamente – ma poi fu stralciata la posizione di Bobby Seale, leader delle Pantere Nere che non c’entrava nulla con quella storia, uomo che fu fatto maltrattare e malmenare dalle forze dell’ordine in aula dall’insopportabile giudice Julius Hoffman. Non servì contrapporre istanze e giuste contestazioni al magistrato: tutto fu sdegnosamente respinto dall’uomo sullo scranno più altro, mentre una giuria opportunamente ripulita da chi avrebbe eventualmente parteggiato, anche se imparziale, con gli accusati assisteva imperturbabile e pronta a condannare i sette innocenti. Uno scandalo legale, umano, sociale che infastidisce sino alla nausea, al disgusto, al ribrezzo per il modo incivile di amministrare la giustizia, con la complicità implicita di chi invece doveva garantire un giusto ed equo processo. Una vergogna!

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Aaron Sorkin non era il regista del primo momento. Nel 2006 aveva incontrato l’ideatore del progetto Steven Spielberg (che poteva anche essere anche il vero regista essendo un argomento adatto alle sue idee, ma ne sarebbe venuto un altro film) e da quel momento si pose a lavorare sulla sceneggiatura. Ci son voluti anni e anni, cambiando di continuo regista e cast ma non si giungeva mai al dunque soprattutto per mancanza di fondi per una storia di questo genere, fin quando nell’ottobre del 2018, dopo innumerevoli cambi di attori e registi, fu annunciato ufficialmente il nome del regista e l’operazione ebbe inizio sotto il costante sguardo di Spielberg. Meno male, perché il risultato è stato eclatante con la piena riuscita del film. Sorkin è, come ben sappiamo, un regista di parole, uno scrittore di sceneggiature appassionanti fatte di dialoghi a mille chilometri all’ora, intelligenti ed efficaci e il cast gli ha reso onore. Lui la sua parte l’ha fatta molto bene, con una grande mano, ingaggiando un ritmo senza soste, come piace a lui e a noi. Le due ore e poco più volano via che neanche ci si accorge, ancora una dimostrazione di talento dell’artista newyorkese.

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Gli attori hanno risposto alla grande. Joseph Gordon-Levitt è Richard Schultz, l’accusa predisposta dal Procuratore Generale, un attore giovane che si adegua ottimamente al ruolo ed esprime con abilità la doppia anima di integerrimo servitore dello stato molto preparato professionalmente e di onesto cittadino che vede incrinare le sue convinzioni davanti alle molteplici irregolarità che non può non notare. Il sempre ottimo John Carroll Lynch è David Dellinger, un signore convinto del principio della non violenza che il destino mette a dura prova. Eddie Redmayne mi ha fatto ricredere nel giudizio che avevo su di lui, che non mi aveva mai convinto pienamente ed invece esprime con elevata bravura la compostezza del suo personaggio, Tom Hayden, un leader studentesco pacato e corretto che aveva il massimo rispetto delle istituzioni e che non voleva entrare in grave conflitto con essi, ma che ciononostante fu trattato come un capo violento. Bravo davvero, una prova matura dove ha saputo cancellare il suo accento inglese per sembrare un perfetto nordamericano. Di Frank Langella ho già detto: tutta la sua esperienza è al servizio del cattivo giudice Julius Hoffman che lui interpreta con la perfidia necessaria, con quel martelletto in mano che vien voglia di suonarglielo sulla testa. Michael Keaton si esibisce per pochi minuti ma di classe nel ruolo dell’ex Procuratore Generale, Ramsey Clark, che cerca in tutti i modi legali di aiutare la giustizia a fare il suo legittimo corso ma chi è nella stanza dei bottoni (leggi Presidente degli Stati Uniti e FBI) lo spaventa. Una doverosa menzione per gli altri, come Jeremy Strong, molto bene nel personaggio di Jerry Rubin, amico fraterno del leader Abbie Hoffman; Danny Flaherty in John Froines, Noah Robbins in Lee Weiner e l’eccellente Yahya Abdul-Mateen II che è Bobby Seale, l’offeso e umiliato leader dei neri.

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E adesso arriviamo ai big. Il primo è (val la pena sottolinearlo ancora?) Mark Rylance: il suo avvocato difensore William Kunstler è un personaggio non facile e lui, capelli lunghi, ghigno di vecchia volpe dei tribunali dove si occupa degli oppressi, sforna l’ennesimo capolavoro che solo un grandissimo attore è capace di fare. Inizia con quiete come da carattere del personaggio, poi, viste le ingiustizie e le anomalie, scatena la sua verve nascosta e sciorina uno straordinario campionario di frasi ad effetto. Tutta grinta e cuore. Ed infine arriviamo a quello che sale sul gradino più altro del podio: Sacha Baron Cohen è uno spettacolo a sé e il suo radical pacifista di grande cultura, leader assoluto delle riunioni degli hippies, Abbie Hoffman spiazza tutti. Sorkin lo dota di frasi sarcastiche e taglienti, che sbriciolano con intelligenza e humor l’interlocutore, che sia un poliziotto o un avvocato, specialmente che sia l’antipatico giudice suo omonimo. Con le sue espressioni e la sua gestualità minimale riesce a conquistare la scena in ogni occasione e lo schermo è tutto suo. Ripeto: uno spettacolo a parte, che merita il tempo dedicato per guardare il film o pagare il biglietto. Ultra bravo!

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Un film che mi ha conquistato immediatamente e che mi ha perfino commosso con un sorprendente finale drammatico ed emozionante. Allorquando il Tom Hayden di Eddie Redmayne, nell’ultima dichiarazione prima della sentenza, invece della breve dichiarazione chiesta dal giudice, si alza in piedi e, con un quaderno in mano, legge tutti – e sottolineo tutti - i nomi e l’età delle migliaia di giovani che, nei soli lunghi giorni del dibattito giudiziario, avevano perso la vita nella sanguinosa e deficitaria guerra in Vietnam. Tutti in piedi e pugno chiuso, si alza perfino il pubblico ministero Richard Schultz. Un finale degno di un grande film che dà il giusto tributo ad un episodio che deve rimanere nella memoria collettiva, affinché non succeda più. Ma purtroppo noi sappiamo che non fu e non sarà l’ultima volta, qui o lì si ripeterà l’ingiustizia.


Riconoscimenti

2021 - Premio Oscar

Candidatura per il miglior film

Candidatura per il miglior attore non protagonista a Sacha Baron Cohen

Candidatura per la migliore sceneggiatura originale

Candidatura per la migliore fotografia

Candidatura per il miglior montaggio

Candidatura per la migliore canzone per “Hear My Voice”

2021 - Golden Globe

Migliore sceneggiatura

Candidatura per il miglior film drammatico

Candidatura per il miglior regista

Candidatura per il migliore attore non protagonista a Sacha Baron Cohen

Candidatura per la migliore canzone originale


 
 
 

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