Il re di Staten Island (2020)
- michemar
- 16 ago 2020
- Tempo di lettura: 7 min

Il re di Staten Island (2020)
(The King of Staten Island) USA 2020 commedia 2h16’
Regia: Judd Apatow
Sceneggiatura: Judd Apatow, Pete Davidson, Dave Sirus
Fotografia: Robert Elswit
Montaggio: Jay Cassidy, William Kerr, Brian Scott Olds
Musiche: Michael Andrews
Scenografia: Kevin Thompson
Costumi: Sarah Mae Burton
Pete Davidson: Scott Carlin
Marisa Tomei: Margie Carlin
Bill Burr: Ray Bishop
Bel Powley: Kelsey
Maude Apatow: Claire Carlin
Steve Buscemi: Papa
Pamela Adlon: Gina
Ricky Velez: Oscar
Moisés Arias: Igor
Kevin Corrigan: Joe
Domenick Lombardozzi: Lockwood
Mike Vecchione: Thompson
Lou Wilson: Richie
TRAMA: Scott è come rimasto bloccato all'età di sette anni quando è morto il padre pompiere. Mentre la sorella minore inizia il suo percorso al college, Scott trascorre le giornate a fumare erba, in giro con gli amici e a flirtare con l'amica di infanzia. Ma, quando la madre comincia a frequentare un vigile del fuoco, una serie di eventi lo costringe ad affrontare il dolore a lungo represso e ad aprirsi a una nuova fase della sua esistenza.
Voto 7,5

Impossibile scrivere considerazioni in merito a quest’opera di Judd Apatow senza prendere in esame la vita e le esperienze di Pete Davidson, che ne è l’anima, l’attore protagonista, il cosceneggiatore, in una parola l’essenza del film. Ai giovani che seguono le vicende dello star system americano, delle trasmissioni comiche delle notti televisive statunitensi e il cast di alcuni film giovanili il nome del giovanotto risulterà noto, ma ai più giungerà abbastanza sconosciuto. Egli è oggi un 26enne nato, guarda caso, a Staten Island, un’isola che costituisce uno dei cinque distretti di New York City, ed è attualmente membro del cast dello storico show televisivo Saturday Night Live, dove approdi e scrivi qualcosa solo se sei degno di far parte della trasmissione tra le più seguite negli USA e dove son passati i migliori comici e attori brillanti americani. Ma attenzione, le caratteristiche più importanti non sono queste, perché per raccontare qualcosa del film è sufficiente informarsi su ciò che è successo davvero nella ancora breve vita di Pete Davidson e tenere presente che la sua comicità è basata principalmente su episodi del suo vissuto, indicati come, a sue parole, "una serie di brutali verità e volgari confessioni": tali spunti, facilmente riconoscibili e divenuti col tempo il suo marchio distintivo, toccano argomenti come l'uso di marijuana, il sesso, le relazioni e alcune esperienze scomode in ambito scolastico.

I suoi genitori sono stati Amy Waters, di origine irlandese, e Scott Matthew Davidson, di origine ebraica, ma è stato educato secondo gli insegnamenti cattolici. Ha una sorella minore di nome Casey. Suo padre, pompiere, è morto in servizio durante gli attentati dell'11 settembre, quando è stato visto per l'ultima volta salire le scale del Marriott World Trade Center poco prima che crollasse. Pete, che all'epoca aveva solo sette anni, è rimasto profondamente segnato dalla perdita del padre e nell'ottobre 2016 ha rivelato al programma radiofonico The Breakfast Club che ha lottato con pensieri suicidi quando era più giovane e che la musica di Kid Cudi gli ha salvato la vita. Ha il numero del suo distintivo, 8418, tatuato sul braccio sinistro. Ha sofferto della malattia di Crohn all'età di 17-18 anni e ha rivelato che all'epoca "non poteva funzionare senza marijuana" e che senza tale sostanza non sarebbe stato in grado di lavorare al Saturday Night Live. Ha frequentato una scuola dove sua madre svolgeva i compiti di infermiera e ha ammesso che i suoi problemi personali inizialmente erano il risultato dell’uso giornaliero di erba e che essi in realtà erano effettivamente causati da un disturbo di personalità borderline, per il quale è stato sottoposto a trattamento. Oltre ai disturbi del deficit di attenzione di cui soffriva. Questi particolari della vita privata del comico sono rilevanti perché li ritroviamo riversati completamente nella trama e se c’è qualche differenza ha lo scopo di darne maggior risalto e per rimarcare i suoi ricordi. Infatti.

Infatti il protagonista del film è un giovane chiamato Scott (come il padre dell’attore) e la madre, vedova ormai da 17 anni, è infermiera in una scuola e presta anche servizio al pronto soccorso. Ha una sorella minore molto in gamba, che all’inizio del film si diploma e parte per il college universitario. Come nella vita reale, suo padre faceva il pompiere ed è morto in servizio entrando in una casa in fiamme per cercare di salvare le persone che vi abitavano, noncurante del fatto che era un intervento chiaramente pericoloso. I colleghi ancora lo ricordano per il suo coraggio e Scott porta tatuato il giorno della morte del padre sul braccio, ma il suo è un corpo quasi totalmente coperto dai tatuaggi, dai quali si può intuire ogni avvenimento importante della sua vita, come un libro aperto: ha una passione sfrenata per questa arte e il suo sogno, non essendo capace di rendersi utile in un qualsiasi lavoro, è quello di aprire un ristorante/laboratorio in cui tatuare i clienti: “Chicken and tattoos” dice lui. “Fuma” parecchio e trascorre il tempo cazzeggiando tutto il giorno con alcuni amici, più o meno sballati come lui, anzi anche peggio, il tempo rimanente lo passa in casa guardando la TV o a fare sesso occasionale, possibilmente con la sua ragazza, Kelsey. La mamma Margie si spacca la schiena lavorando molte ore ed è stufa di sopportare un figlio di 24 anni che non vuole trovar lavoro e bivacca sul divano. Lui si scusa per questo, facendo presente che i suoi problemi – la malattia di Crohn e il deficit d’attenzione che lo affligge – non gli consentono di essere affidabile in qualsiasi lavoro. Ne è cosciente ma nello stesso tempo non fa nulla per migliorare la situazione.

Come è facile notare molti degli elementi che hanno caratterizzato la vita giovane di Pete Davidson sono gli stessi che accompagnano la vita di Scott Carlin, vita che ad un certo punto subisce un’accelerazione educativa e di crescita, allorquando la mamma si decide, a seguito di un cambiamento nella sua vita affettiva, di cacciarlo di casa. È a questo punto che una trama che sembrava banale, con battute divertenti, qualche non sense sparso nei dialoghi spassosi, d’un tratto assume i contorni di un racconto di formazione. È qui che scopriamo il vero Scott, quel giovane cioè rimasto profondamente colpito dalla perdita del padre, ferita che si trascina dall’età di 7 anni (altro particolare riportato dalla vita reale), che inconsciamente lo condiziona e lo trattiene. Solo approdando e frequentando (per le diagonali che sa tracciare solo il destino) la caserma dei pompieri dove prestava servizio suo padre riesce a rendersi utile: in quel posto si sente protetto, respira l’aria del lavoro paterno, si sente persino utile svolgendo i lavori più modesti. Nella caserma dei vecchi colleghi del padre si sente in famiglia e la presa di coscienza della sua vita e di ciò che può fare per sé (prima di tutto) ma anche per gli altri incominciano a farlo crescere e maturare, cosa che lo condurrà anche a riavvicinarsi a Kelsey, la simpaticissima ragazza che nonostante tutto gli vuol bene e che ha grandi progetti per il suo futuro professionale. La vita di Scott raccontata nel film è in pratica quella di Pete, che non ha evidentemente avuto remore a scrivere e a riversare nella sceneggiatura la sua vita personale, quasi come una terapia di autoanalisi confessata in un film molto ben riuscito.

Il suo personaggio ha diversi aspetti, tutti compatibili, e il perché lo si deduce dalla sua persona: è spiazzante, brutalmente sincero, può risultare al primo impatto antipatico ma invece è naturalmente empatico, parla tanto e le sue osservazioni, un tantino ciniche, pronunciate con estemporanea tranquillità, sono senza veli e veritiere, dette con un vocione baritonale che sembra adatto al suo fisico da lungagnone (è alto 185 cm.) in pantaloncini con le spalle incassate e sempre curvo e ciondolante, come a ispessire e dimostrare a tutti la sua voglia di non far nulla per tutto il giorno. Su quelle spalle ripiegate sembra ci sia tutto il peso della casa in fiamme in cui era entrato il padre, e che in realtà rappresentano la gravità di Ground Zero e di ciò che ne era rimasto, un patema d’animo che Scott/Pete non ha la forza di risolvere e chissà se ci è riuscito con il film e con la scrittura della sceneggiatura firmata assieme al regista e a Dave Sirus, già suo collega di lavoro nei testi della mitica trasmissione del S.N.L.. Sei mani per una sceneggiatura tanto divertente, con dialoghi brillantissimi e battute a raffica, soprattutto del protagonista Scott che indispettisce puntualmente l’interlocutore di turno. Una riuscita scrittura che ci illustra molto bene quel distretto della metropoli per antonomasia di cui si parla e si vede pochissimo, quasi mai nel cinema, quello Staten Island i cui abitanti non vedono l’ora di lasciare, da cui guardano sempre la vera New York dal basso verso l’alto, un posto che considerano da sfigati: “Perché non possiamo essere come Brooklyn? Non ci manca niente per esserlo.” La bella inquadratura finale in cui la macchina da presa si muove per mostrarci di spalle il risveglio mentale di Scott, egli guarda verso il cielo azzurro di New York, come per dire “eccomi pronto”, pronto ad abdicare dal regno di Staten Island e affrontare la vita assieme alla sua ragazza.

Oltre alla presenza di una Marisa Tomei in formissima e sempre molto brava, oltre che ancora bella, il merito della riuscita del film è anche, ovviamente del bravo Judd Apatow, regista specializzato in commedie giovanili o giù di lì, che affronta col piglio giusta questa storia che sa dosare amore, elaborazione del lutto e spirito goliardico di futuri uomini che tardano a diventarlo. Un regista che ha saputo trasformare una storia reale in una di finzione immaginando che se Pete Davidson non fosse diventato il comico di successo che è oggi forse oggi starebbe ancora a cazzeggiare tutti i giorni con la sua combriccola. Situazione che si potrebbe fotografare con questo ritaglio di dialogo illuminante, quando la sorella Claire (Maude Apatow, figlia del regista) dice a Scott: “Polli e tatuaggi? Ma non è un lavoro, cerca di ragionare. Il tempo passa molto molto in fretta!” E lui: “È per questo che fumo sempre erba, le canne rallentano tutto.”