Il responsabile delle risorse umane (2010)
- michemar

- 2 mag 2023
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 1 giu

Il responsabile delle risorse umane
(The Human Resources Manager) Israele, Germania, Francia, Romania 2010 commedia drammatica 1h43’
Regia: Eran Riklis
Soggetto: Abraham B. Yehoshua (romanzo)
Sceneggiatura: Noah Stollman
Fotografia: Rainer Klausmann
Montaggio: Tova Ascher
Musiche: Cyril Morin
Scenografia: Dan Toader, Yoel Herzberg
Costumi: Li Alembik, Adina Bucur
Mark Ivanir: il responsabile delle risorse umane
Guri Alfi: il giornalista
Noah Silver: il ragazzo
Reymond Amsalem: la ex moglie
Rozina Cambos: la console
Julian Negulesco: il viceconsole
Gila Almagor: la vedova
Yigal Sade: il supervisore del turno di notte
Bogdan Stanoevici: l’ex marito di Yulia
Irina Petrescu: la nonna
Galina Ozerner: Yulia
TRAMA: Il responsabile delle risorse umane di un grande panificio di Gerusalemme viene incaricato di risolvere lo scandalo giornalistico dell’azienda, accusata di essersi totalmente disinteressata delle sorti di una sua dipendente rimasta uccisa in un attentato terroristico. Poiché nessuno sembra reclamare il cadavere sarà lui ad avventurarsi in un lungo viaggio verso il paesino da cui proveniva la donna (molto probabilmente della Romania) per la degna sepoltura.
Voto 7

Per introdurre le considerazioni su questo bel film va precisato a priori una particolarità: a nessuno dei vari personaggi della trama è stato attribuito alcun nome e sono genericamente e semplicemente indicati con il ruolo. A nessuno. Tranne uno: la donna che fa scaturire la storia e che, rimasta vittima di uno dei tanti attentati terroristici che avvengono in Israele, però non viene mai mostrata, ad eccezione di una foto e di un breve video. Lei è la povera Yulia, che, emigrata da un villaggio di un Paese dell’est europeo, probabilmente la Romania, lavorava nel turno di notte come addetta alle pulizie di una grandissima azienda che produce pane di ogni sorta e che viveva sola in un anonimo quartiere di Gerusalemme, chiamata da tutti Ruth.

Il protagonista è il responsabile delle risorse umane dello stabilimento, un uomo apparentemente scontroso, troppo preso dal lavoro e per questo lasciato dalla moglie ma rimasto molto affezionato alla figlia, a cui ha promesso di accompagnarla alla gita scolastica. È sempre sotto pressione, vorrebbe essere più presente in famiglia ma non ci riesce, amerebbe dimostrare meglio i suoi sentimenti ma è spesso in giro. Ora che è rientrato a tempo pieno nelle sue funzioni nell’azienda (ma cosa faceva prima?) esplode un caso molto scomodo, quando appunto la stampa locale si accorge che il corpo della donna all’obitorio, a seguito dell’attentato, non viene reclamato da nessuno, ma che portava tra i suoi documenti il cedolino paga del panificio, pur essendo stata licenziata da un mese. Pagata ma, a quanto pare, sconosciuta a tutti. Il responsabile, uomo efficiente e intelligente, scopre i retroscena del licenziamento, mentre la vedova a capo della ditta, per mettere a tacere il caso, lo incarica di occuparsene e di organizzare un funerale riparatore, magari spedendo via aerea la bara e accompagnarla addirittura al luogo dove vive la famiglia di origine. Vuoi vedere che la promessa della gita fatta alla figlia non riesce a mantenerla, ancora una volta?

Spesso si commenta brevemente un film dicendo che ne succedono di tutti i colori ma in questo caso siamo proprio ai confini della fantasia. Il caso che sembrava facile da risolvere, soprattutto pagando adeguatamente le persone giuste (le disponibilità finanziarie non mancano) e trovando i canali burocratici adatti per una adeguata tumulazione in patria. Eh, sì, ne succederà di ogni, trasformando qualsiasi momentanea soluzione in una complicazione, coinvolgendo sempre più il responsabile, che tutte le volte ha la prontezza di trovare una via d’uscita, magari usando un po’ di ingegno e qualche banconota alla persona da convincere. La spedizione diventa, inaspettatamente, un road movie senza fine e anzi quando questa è raggiunta la situazione si capovolge e si deve tornare, come in un feroce gioco dell’oca, daccapo.

Nel frattempo, il responsabile deve badare a tanti personaggi: il fotoreporter del giornale che ha sollevato lo scandalo che non lo molla mai, tanto da essere considerato una “serpe”, la console israeliana in Romania e suo marito, l’ex marito della defunta e soprattutto il figlio ribelle di questa che vive da sbandato nei ghetti della cittadina e che non vuole saperne di entrare in contatto con tutta questa gente. Sarà invece proprio il giovanotto che entrerà meglio in sintonia con l’uomo che sta cercando disperatamente di portare a termine il difficile compito, il quale si ritrova convolto sempre più nella vicenda, a dimostrazione che è solo un povero diavolo che è sovrastato dal lavoro a cui rinuncerebbe volentieri, bloccato in questi intenti dalla vedova titolare che non può fare e a meno delle sue qualità. Nulla sappiamo del suo passato: chissà, per cavarsela sempre così bene forse prima era un militare o un agente segreto e adesso dietro la sua scrivania arrivano solo problemi. Infelice, (im)paziente, solo, deve sempre trovare le risorse dentro di sé.

Prima un furgone di fortuna della console e poi addirittura, comicamente grottesco, un carro armato che diventa funebre per trasportare la bara di Yulia, tra guasti, tormente di neve, litigi con il giovanotto tumultuoso, strade da cercare in una zona ai limiti dell’Europa, soste impreviste, notti perse in un profondo sotterraneo dell’esercito rumeno. Siamo davvero ai limiti delle avventure umane pur di giungere all’unica persona al mondo che può firmare il documento per la tumulazione: la nonna, la anziana madre che vive nel villaggio, la quale però sentenzia che Yulia era scappata via da quella terra dimenticata da Dio e che ormai viveva a Gerusalemme e lì amava vivere.

Non interessa al regista Eran Riklis, che ha girato sulla base del romanzo di Abraham B. Yehoshua, i pur importanti temi di contorno come il conflitto arabo-israeliano o i pessimi rapporti che storicamente hanno condizionato i collegamenti tra lo stato ebraico e i paesi dell’est, ma piuttosto si concentra su un uomo triste e forse incompreso, sempre in grado, pur dopo qualche momento di rifiuto, di comprendere tutti, di giustificarne i comportamenti e concedere sempre il suo aiuto. Sembra un’avventura ma è invece una serie di riflessioni malinconiche sulla migrazione, di donne che lasciano i figli che, confusi e trascurati dai padri, non hanno più una guida materna. Donne che corrono in occidente per bisogno o per evasione da una vita insoddisfacente, sempre utili e necessarie per i lavori che qui nessuno ama fare, soprattutto le badanti o le pulizie dei locali. Come dice un personaggio, Yulia non è la prima lavoratrice straniera a tornare a casa da Israele in una scatola e non sarà l'ultima. Per fortuna il finale è rincuorante, perché emerge ancora una volta la buona volontà del protagonista che accetta le osservazioni dei familiari e capisce la maniera umanamente adeguata a portare la salma, che ha girato mezza Europa, lì dove è giusto che stia per sempre. Ma prima, per essere certa, la nonna gli chiede una domanda importante, soprattutto ai fini della decisione finale, tramite il nipote che fa da interprete: “Vuole sapere se Yulia era felice lì.” E dopo qualche secondo di riflessione: “Non lo so.”. Ormai la decisione è presa e lui prende il telefono e: “Sto tornando a casa”, dice alla moglie. Anche lui.

È una commedia drammatica o un dramma comico, dipende dai momenti e da come la si vuole vedere, di certo è un film che sfiora il grottesco e forse persino l’allegoria oscura e fiabesca, una invenzione narrativa che nella malinconia della trama trova spunti spiazzanti e divertenti e fa sorridere amaro. In ogni momento è imprevedibile ciò che può succedere e non ci si annoia mai. Belli i personaggi di Eran Riklis, che ha alle spalle due bei film come La sposa siriana e Il giardino di limoni – Lemon Tree, e che si conferma quindi un buon direttore di attori. Come è bello il rapporto che fa maturare tra il responsabile e il giornalista, inizialmente antipatico, e quello con il figlio della vittima, anche lui all’inizio poco raccomandabile: una sincera ed affettuosa amicizia che matura nelle difficoltà oggettive e relazionali. Ma il principe assoluto del film è l’ottimo Mark Ivanir, attore ucraino naturalizzato israeliano che abbiamo ammirato in molte altre occasioni (come, per esempio, l’apprezzabile Una fragile armonia di Yaron Zilberman o i tanti film d’azione): il film è tutto sulle sue spalle ed espressioni che parlano spesso in silenzio, con pause perfettamente inserite nei dialoghi. Una prova eccellente. La sua recitazione è la chiave per leggere il film, sapendo gestire i momenti chiave senza sentimentalizzare il suo personaggio e ciò bilancia alcuni dei momenti comici più leggeri e ci convince che, alla fine, è diventato un manager in un senso molto più vero, più partecipativo.
Riconoscimenti
Haifa International Film Festival 2010
Miglior attore Mark Ivanir
Premi dell'Accademia israeliana del cinema 2010
Miglior film
Miglior regia
Miglior attrice non protagonista
Miglior sceneggiatura
Miglior suono
Candidatura miglior attore Mark Ivanir
Candidatura miglior attore non protagonista Guri Alfi
Candidatura miglior montaggio
Festival di Locarno 2010
Premio Audience










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