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Il vizio della speranza (2018)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 20 nov 2019
  • Tempo di lettura: 5 min

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Il vizio della speranza

Italia 2018 dramma 1h36’


Regia: Edoardo De Angelis

Sceneggiatura: Edoardo De Angelis, Umberto Contarello

Fotografia: Ferran Paredes Rubio

Montaggio: Chiara Griziotti

Musiche: Enzo Avitabile

Scenografia: Carmine Guarino

Costumi: Massimo Cantini Parrini


Pina Turco: Maria

Massimiliano Rossi: Carlo Pengue

Marina Confalone: Zi' Marì

Cristina Donadio: Alba

Marcello Romolo: dottore


TRAMA: Lungo il fiume scorre il tempo di Maria, il cappuccio sulla testa e il passo risoluto. Un’esistenza trascorsa un giorno alla volta, senza sogni né desideri, a prendersi cura di sua madre e al servizio di una madame ingioiellata. Insieme al suo pitbull dagli occhi coraggiosi Maria traghetta sul fiume donne incinte, in quello che sembra un purgatorio senza fine. È proprio a questa donna che la speranza un giorno tornerà a far visita, nella sua forma più ancestrale e potente, miracolosa come la vita stessa. Perché restare umani è da sempre la più grande delle rivoluzioni.


Voto 7


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Riecco Edoardo De Angelis dopo il successo e i premi per Indivisibili (recensione). Siamo ancora nella periferia, anzi ancora più fuori, siamo nei ghetti: una comunità sulle rive del Volturno con sbandati, prostitute nigeriane gestite da una organizzatrice nera che a sua volta deve rispondere a una pappona bianca eroinomane, zi’ Marì (una sorprendente Marina Confalone). Al suo servizio altre ragazze con compiti collaterali, tra cui la solita viscerale Pina Turco. Sullo sfondo una Castel Volturno che, almeno nel film, è la periferia non solo geografica ma soprattutto morale dell’umanità che si è persa.


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Pina Turco è Maria, una donna profondamente traumatizzata da un abuso sessuale che l’ha resa incapace di avere figli e che si guadagna da vivere come braccio destro della “zia”, traghettando sul fiume le prostitute nigeriane che per sopravvivere affittano il proprio utero, un compito non nato dalla generosità ma dalla schiavitù. In questo misero inferno, dove si sopravvive solo grazie al minimo gesto di carità, l’unico sostegno è la speranza e ci vuole anche tanto coraggio e pazienza per mantenere questo sentimento, dal momento che la disperazione che coglie le donne in molti momenti è invadente.


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Il primo contatto con il film dà la sensazione di trovarsi a che fare con un’opera “bugiarda”, nel senso che sembra poco sincera e falsamente poetica. Il senso poetico che si afferra appare posticcio e artefatto e invece man mano che il film prende forma e sostanza si viene soggiogati dalla forza della trama e dalla potenza di una ragazza che all’inizio poteva erroneamente dar l’idea della fragilità femminile. La Maria che tiene in mano tutto il film, dal primo all’ultimo istante, è una maestranza della prepotente Zi’ Marì, capace di tenere a bada le donne nere che deve trasportare sulla barca, alla pari di un Caronte senza cuore. Ed invece il cuore ce l’ha eccome! È proprio quel cuore che le dà la scossa della ribellione, soprattutto quando scopre che il Cielo o la Natura le stanno dando il dono della insperata maternità. La pancia prende forma, ma anche la storia, come la speranza che cresce in Maria, quella di trasformare il suo parto come un atto di ribellione a quella vita e, sopra ogni cosa, in una manifestazione di libertà, quella libertà che lei e le altre donne non hanno mai avuto. La superingioiellata zi’ Marì la pungola: “State tutte fissate con ‘sta libertà, manco sapete che cos’è. È un campo vuoto, senza niente. È così bella la schiavitù, con le regole, le punizioni, i premi… Dimmi ‘na cosa: se te ne vai, addo’ vai?” E lei: “Da Carlo Pengue!”


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Il Pengue è un ex giostraio, è “l’unico essere umano che conosco”, dice Maria, ed in effetti è il personaggio più bello del film, l’unico che ha saputo e dovuto rinunciare a tutto pur conservando la sua dignità, oltre le infamanti accuse che lo hanno distrutto. È lui che darà alla ragazza disperata l’aiuto inatteso e prezioso, come un San Giuseppe a cui Maria sta affidando il fiore che porta in grembo, che chiamerà Uomo. Sì, i riferimenti religiosi son tanti, forse perfino troppi, ma sorprendono per tempismo ed efficacia: i nomi, le citazioni più che didascaliche (Di chi è il bambino, Maria? Nessuno), i cartelli affissi sulla strada con le sette Opere di Misericordia (Dar da mangiare agli affamati, ecc.). Un film quindi che si incanala in una preghiera laica, piena di sofferenze e tantissima speranza, perno del film (ancora Zi’ Marì: “Ti è venuta questa stronzata della speranza, ti sei fatta contagiare!”) Il logico finale è la consacrazione di quella scenografia di contorno che si vede lungo tutto il percorso del film, zeppo di alberi di Natale, di luci e di Presepi: è un edificio tanto diroccato che è divenuto la grotta di Betlemme. C’è un fuoco ravvivato da Carlo Pengue, un giaciglio di fortuna, una ragazzina come un angioletto nero e il giostraio che prega come non ha fatto mai in vita sua, offrendo perfino la sua vita in cambio della riuscita del parto difficile.


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Le sensazioni di un eccesso di melodramma possono essere fondate ma la vita di queste disgraziate non è l’essenza di un doloroso dramma? Non è umano sperare in una svolta dell’amaro destino che le ha colpite così lontano dalla loro casa natia? Libertà non è covare un “vizio” come la speranza? Un film crudo e cupo, ma questo è il cinema della miseria, in cui la musica tristemente solare di Enzo Avitabile (così come nel film precedente) colpisce al cuore. È il cinema del napoletano Edoardo De Angelis, il narratore della terra che conosce bene, il cantore delle periferie e dei ghetti della costa domiziana. Secondo me questo film è più bello del primo. E mentre Marina Confalone porta a casa il Nastro d’Argento e il David di Donatello, un elogio va fatto alla intensa e passionale Pina Turco, moglie del regista, bravissima a trasmettere le tante emozioni che le passano per la mente. E un encomio a parte per Massimiliano Rossi, che mi ha molto impressionato.


Jastemma d’ammore (Enzo Avitabile)

Gente che sente l'aria 'ncoppa 'a pella soja

Che sta a cuntatt' sempe

Che 'o munno

Addò ce sta 'a verità

Addò ce sta coccosa

Pensier' senza parole

Lacrime 'e luce

Meglio 'na goccia d'acqua d''e sentimenti

Meglio ogni tanto a tuccà 'nu tramont'

E 'mparate a te vulè bene overamente

Si overo vuo' vulè bene a 'n'ato

È 'na jastemma 'sta parola "ammore"

Miliuni 'e voci, 'na voce sola

Se trema comme a 'na stella pe' 'e vuot' d'abbandono

Semplicemente sulo

È 'na jastemma 'sta parola "ammore"

Core addulurato, figlio 'e Dij, figlio d''a preta

Sette spade appizzate

Core 'int''o foro

Ammore è sulo 'na parola

Anima povera e sola

Ca nisciuno cunosce

Che magnanneno povere comme povere simmo

Nun truvanno nisciuna risposta

Vanno annanz'

Varcanno 'e cunfin' d''a vita

E cibannese 'e suonne

Mumento triste e allegro, doce e amaro

E quanti ce ne stanno dinto a noi

Amici faveze e nemici overo

'O core rimmane sempe 'nu passo arrete

È 'na jastemma 'sta parola "ammore"

Miliuni 'e voci, 'na voce sola

Se trema comme a 'na stella pe' 'e vuot' d'abbandono

Semplicemente sulo

È 'na jastemma 'sta parola "ammore"

Core addulurato, figlio 'e Dij, figlio d''a preta

Sette spade appizzate

Core int''o foro

Ammore è sulo 'na parola

Ammore è sulo 'na parola

Nel bosco c'è un uccello

Il suo canto ti ferma e ti fa arrossire

C'è un orologio che non suona

C'è un precipizio con un nido di bestie bianche

C'è una cattedrale che scende e un lago che sale

C'è una compagnia di piccoli commedianti in costume intravisti sulla strada attraverso il margine del bosco

E c'è, infine, quando hai fame e sete qualcuno che ti caccia via

Io sono viandante sulla strada maestra che attraversa i boschi

Vedo a lungo il malinconico bucato d'oro del tramonto

Meno in alto ci sono le foglie

Meno in alto ci sono le foglie

I sentieri sono aspri

I dossi si ricoprono di ginestre

Come sono lontane gli uccelli e le fonti

Non può esserci che la fine del mondo andando avanti

È 'na jastemma 'sta parola "ammore"

Miliuni 'e voci, 'na voce sola

Se trema comme a 'na stella pe' 'e vuot' d'abbandono

Semplicemente sulo

È 'na jastemma 'sta parola "ammore"

Core addulurato, figlio 'e Dij, figlio d''a preta

Sette spade appizzate

Core int''o foro

Ammore è sulo 'na parola

Ammore è sulo 'na parola



 
 
 

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