Imaculat (2021)
- michemar

- 12 set 2021
- Tempo di lettura: 5 min

Imaculat
Romania 2021 dramma 1h54’
Regia: Monica Stan, George Chiper-Lillemark
Sceneggiatura: Monica Stan
Fotografia: George Chiper
Montaggio: Delia Oniga
Scenografia: Ana Gabriela Lemnaru
Costumi: Sonia Constantinescu, Anca Miron
Ana Dumitrascu: Daria
Vasile Pavel: Spartac
Cezar Grumazescu: Costea
Ilona Brezoianu: Chanel
Rares Andrici: Manu
Bogdan Farcas: Radu Nebunu
Hritcu Florin: Pisica
Ioan Tiberiu Dobrica: Dorel
Ionut Niculae: Ciocolata
Dan Ursu: Victor
Petrache Ninel: Buze
Diana Dumbrava: direttrice
TRAMA: Quando la giovanissima Daria entra in un centro di disintossicazione per liberarsi dalla dipendenza dalla droga alla quale l’ha iniziata il suo primo amore, la sua disarmante innocenza la salva dalle avance sessuali dei tossicodipendenti dell’istituto, quasi tutti maschi, che anzi assumono nei suoi confronti un atteggiamento protettivo.
Voto 6,5

Presentato a Venezia78 del 2021 nella sezione Giornate degli Autori e premiato con il Leone del futuro - opera prima “Luigi De Laurentiis”, l’esordio di Monica Stan, avvenuto con George Chiper-Lillemark, è un film molto particolare che porta sullo schermo la propria esperienza autobiografica. La regista rivela: “Avevo 18 anni quando sono finita in riabilitazione. Ero sorpresa, stavo bene in quel posto. Nel mio ambiente borghese ero quella corrotta. Là, in mezzo agli altri tossicodipendenti, ero vista come una speciale. Da adolescente insicura, ho abboccato immediatamente alle lusinghe. L'immagine che gli altri hanno di noi può sedurci al punto da identificarci con essa, finché non ci rendiamo conto dolorosamente che si tratta di un'illusione pericolosa.” Mentre il coautore racconta che “Leggendo la sceneggiatura di Monica sono stato attratto dalla relazione tra il continuo chiacchiericcio e il desiderio dolorosamente concreto di vicinanza. Per dirla in altri termini, le parole creano un velo ingannevole di intricate dinamiche di potere e di genere in contrasto con i corpi che si attardano, a volte abbandonati in un'unione calda e totalizzante.” Per intenderne meglio il contenuto e il modo con cui l’ha voluto esporre, è interessante sapere che la Stan ha una formazione in psicologia, preparazione che risalta evidente nella esposizione e nello sviluppo della trama, che in verità è scarna, essenziale, ridotta al minimo, dato che la regista punta piuttosto all’ambiente e alle tumultuose relazioni tra i personaggi. In primis, alle reazioni della protagonista, sua raffigurazione personale.

È la vicenda di Daria (interpretata dalla brava Ana Dumitrascu), diventata tossicodipendente da eroina per amore, nel senso che per vicinanza al suo ragazzo si è lasciata iniziare alla droga. Lei appare immediatamente timida e dall’aria innocente, quasi sprovveduta, una dolce ragazza che ha tutti i sogni normali che può avere una studentessa rispettosa: a scuola se la cava bene e sogna di andare all'università. La sua esistenza viene drammaticamente sconvolta quando il ragazzo viene condannato a quattro anni di prigione e sua madre decide di farla ricoverare in clinica per la disintossicazione. È proprio in questo momento che la incontriamo, quando lei entra in un mondo che non conosce affatto, come un animale sperduto e impaurito. In quel luogo sono ospitati alcuni giovanotti ed un’altra donna, vivaci e di maniere spicce: tutti la circondano, cercano di circuirla, la toccano, pensano di poterla avvicinare facilmente. Daria è spaventata ma tutta quella attenzione che subisce la lusinga e la conforta, non avendo evidentemente mai avuto tanta considerazione e inaspettatamente nello stesso tempo la sua reazione provoca negli altri un senso di protezione e di vicinanza (anche troppa). C’è una certa gerarchia nelle stanze della clinica, stabilita anche dal grado di pericolosità dei soggetti presenti e dalla personalità che essi hanno nel mondo esterno, a cominciare da Spartac, un omone scuro che la pre(te)nde come preda personale e dopo qualche tentativo di possesso si addolcisce e le presta la protezione. Il che ha un prezzo e come minimo la tiene stretta a sé sul suo letto. Le promette anche di procurarle un cellulare affinché lei possa chiamare il fidanzato in carcere, ma tutto ciò, si può immaginare, richiede una ricompensa. L'innocenza e la lealtà di Daria verso il suo partner la rendono speciale agli occhi degli altri pazienti ma presto l'arrivo di un nuovo paziente, Costea, scuoterà le relazioni instabili tra i presenti. Anzi scatenerà anche l’ira del leader della comitiva quando li scopre in atteggiamenti troppo affettuosi, segno evidente che la ragazza è fedele al suo ragazzo ma cede facilmente alle lusinghe del nuovo degente per bisogno di affetto e contatto umano. La difficoltà maggiore per Daria è resistere ed arrivare alla scadenza del ricovero, per tornare, speriamo disintossicata, alla vita normale.

I suoi occhi grandi e spalancati sono la finestra dei timori, delle speranze, della difficoltà di adattamento in quell’ambiente sicuramente non facile, anche perché la sorveglianza è praticamente assente e i ricoverati hanno molta libertà, nessuno li limita nei movimenti e nelle azioni, soprattutto negli approcci poco amichevoli. C'è qualcosa di commovente ma anche di ripugnante in questo branco di tossicodipendenti, tutta gente comune e con problemi nella vita, praticamente dei paria messi alle strette dalla loro dipendenza e costretti in un luogo restrittivo, affetti da una macchia sociale e con evidenti sintomi di astinenza, e forse segretamente convinti che riprenderanno il loro grave vizio non appena il loro mese nella clinica finisce. La regista li segue quasi totalmente con primissimi piani, raramente con inquadrature più allargate: osserva e ci offre continuamente il loro viso, soprattutto Daria, su cui leggiamo ogni momento di emozioni, di timore. Occhi dilatati e immobilità facciale (ugualmente espressiva, però), come in attesa di ciò che sta per succedere, con l’obiettivo incessantemente puntato su quel viso grande come lo schermo. Non è facile intuire quello che le passa per la mente, ma si legge comunque la voglia di cavarsela e di sfuggire ai perenni pericoli che si affacciano minuto dopo minuto. Diventa un dramma sulla forza dolcemente aggressiva degli altri e su quella innocente che possiede, come una resistenza passiva. Daria è una ragazza fragile ma resistente, anche nei momenti più difficili.

La scelta di Monica Stan e George Chiper-Lillemark cade su un rapporto dello schermo a 4:3, quindi ristretto, che dà maggior risalto ai costanti primissimi piani, che acuisce la ristrettezza del luogo e della situazione, che accentua la vicinanza tra i personaggi, che ci costringe a guardare da vicino le minime reazioni emotive di Daria, che dà sempre l’impressione non provare alcun sentimento, cosa che invece non è. Facile immaginare che Monica Stan voglia farci pervenire quello che aveva in mente nel momento della scrittura tramite la recitazione comunicativa della brava Ana Dumitrascu. Film di bianco immacolato, di bianco lattiginoso e opaco, che si illumina sono in una sequenza, film così bianco che si fa fatica a leggere i sottotitoli (ma perché in carattere bianco sul bianco dei camici, delle pareti, della luce? Che fatica!), bianco alla pari dell’ingenuità candida di Daria. Film – vicino ad un prison movie - non facile, che abbisogna di pazienza e di osservazione attenta, che ci mostra e dimostra un aspetto della vita della Romania e del nuovo cinema rumeno che non finisce mai di sfornare novità, sulla scia dei migliori autori che negli ultimi anni hanno diffuso quel cinema: Cristian Mungiu, Cristi Puiu, Radu Mihaileanu. Film coraggioso (quando si parla di se stessi lo è sempre), autopsicanalitico, lenitivo e soprattutto sincero, quindi apprezzabile.






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