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In un mondo migliore (2010)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 20 mar 2021
  • Tempo di lettura: 4 min

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In un mondo migliore

(Hævnen) Danimarca/Svezia 2010 dramma 1h59'


Regia: Susanne Bier

Sceneggiatura: Anders Thomas Jensen

Fotografia: Morten Søborg

Montaggio: Pernille Bech Christensen, Morten Egholm

Musiche: Johan Söderqvist

Scenografia: Peter Grant

Costumi: Manon Rasmussen


Mikael Persbrandt: Anton

Trine Dyrholm: Marianne

Ulrich Thomsen: Claus

William Jøhnk Nielsen: Christian

Markus Rygaard: Elias


Trama: Christian non ride e non perdona mai. Rimasto orfano si trasferisce in Danimarca con il padre, nella nuova scuola incontra Elias, ragazzino timido e pestato dai bulli d'ordinanza, con genitori perfetti sul lavoro e meno nella coppia. I due adolescenti cominceranno insieme un cammino verso il male sotto gli occhi impotenti dei pur coscienziosi genitori.


Voto 7,5

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Ci sono frequenti ritorni in patria da luoghi lontani, fisici e dell’anima, nei film di Susanne Bier: dall’Afghanistan (Non desiderare la donna d’altri), dall’India (Dopo il matrimonio), dall’Africa come in questo caso. E son sempre rientri dolorosi, problematici, spesso con il rimpianto di non essere rimasto lì, dall’altra parte del mondo, in modo da lasciare lontano le problematiche delle cose rinunciate e degli affetti graffianti messi da parte. Non è detto che tornare a casa sia sempre la scelta migliore. Infatti, il titolo originale Hævnen sta per vendetta e quando questo termine si incrocia con ‘ritorno’ non si creano buone premesse.

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Si scrive sempre, con tanta retorica, che l’amore fa lunghi giri e poi ritorna, ma così, e senza retorica, succede anche per altri sentimenti, come il dolore e la vendetta. Christian è solo un adolescente, ancora e giustamente in lutto per la morte della mamma. Lui sta tornando in Danimarca con il padre, che odia perché crede che non abbia fatto abbastanza per salvare la madre dal cancro, come se un uomo possa frapporsi tra la malattia e il paziente. In patria conosce a scuola un altro ragazzino, Elias, più timido, sorridente, ma vittima dei bulli della classe, e con lui, dopo averlo immediatamente difeso fisicamente, inizierà una serie di esperienze di vario tipo, anche e soprattutto negative, che però si riveleranno utili per la crescita. Nel frattempo, più in alto di loro, i loro genitori attraversano un periodo del tutto negativo nella vita, anche di coppia. Quelli di Elias, infatti, sono in procinto di divorziare, fatto che produce in lui instabilità e insicurezza, trovando forse proprio in Christian la sponda per distrarsi. Il padre Anton è medico in Africa, dove in un ospedale da campo (e ciò è già un eufemismo) cerca di salvare la popolazione dalle malattie e in particolare le donne incinte oggetto di barbarie da parte della banda armata guidato da un uomo senza scrupoli che terrorizza la povera gente di quei poverissimi villaggi. Anton vive con la missione della salute degli ultimi della terra e odia ogni forma di violenza, ma quando viene a contatto con il capo dei banditi, ferito gravemente, lo cura come suo dovere ma davanti all’ennesimo atto di prepotenza e violenza cede purtroppo alla tentazione di permettere alla folla, succube del fuorilegge, di consumare una vendetta da troppo tempo desiderata. Spaventandosi di aver lasciato che ciò accadesse.

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Dall’altro lato c’è una famiglia interrotta, in cui il padre Claus avverte la pesantezza della perdita dell’amata moglie. Christian già di suo ha grossi problemi relazionali con il padre rimasto vedovo, che lui accusa per non aver fatto il possibile per salvare la mamma, come se ciò fosse stato nelle sue possibilità. Non è un ragazzo che si confida volentieri, anzi si tiene anche alla lontana dal padre ma alla prima grave occasione gli rinfaccia di tutto, persino “Tu volevi che morisse!” Una interpretazione dei fatti distorta a causa del dolore, di un vuoto che lui non sa come riempire. Sono storie assimilabili, di esistenze parallele, di grandi e di adolescenti, dei singoli e delle famiglie: su due binari differenti, due famiglie allo sfascio in cui i più deboli, gli adolescenti appunto, sono l’anello più fragile, che, non avendo la maturità necessaria per capire e reagire, commettono errori, a volte banali, a volte banalmente gravi, come succede infatti quando vogliono vendicare un sopruso subito dal medico Anton ad opera del meccanico violento e manesco con cui ha avuto un diverbio, sempre pacifico da parte sua. Evento che li scuote, che rinsalda la loro alleanza contro l’ambiente e contro le persone che non si accorgono mai delle loro avventure. Tipo quella di andare ad isolarsi in cima ad un altissimo silos da cui dominano la vista sulla cittadina. È il luogo che racchiude e localizza la loro solitudine, le mancate comprensioni familiari, le incongruenze, seppur a vario titolo, tra i loro genitori.

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Anton insegna pace e comprensione, Claus non dedica la giusta e sufficiente attenzione verso un figlio che ha bisogno di vicinanza e guida spirituale, la moglie del primo, Marianne, è troppo nervosa e preoccupata della sua vita personale, egoismo che fa pagare al buon marito, Christian medita continuamente ripicche, Elias è la vittima più fragile del quadro, asseconda in ogni occasione il compagno più risoluto, fa la spola tra la nevrotica mamma e il papà che, ogni volta che rientra in Danimarca, vive da solo in uno chalet vicino al mare. I due ragazzini si guardano a destra e a sinistra e non trovano l’appoggio di cui necessitano. Ci può essere un mondo migliore? Certo che sì, ma le piccole vendette personali condizionano non poco, spingono a comportamenti diversi: c’è il piccolo dittatorello della zona abitata da gente povera e indifesa, c’è il bullismo imperante nelle scuole, lo sconosciuto esaltato e aggressivo che alza le mani perché è solo un idiota che non sa argomentare diversamente. Il mondo non si salva in questa maniera.

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Susanne Bier si è liberata da tempo dal Dogma dominante fino a qualche anno prima nel cinema danese e punta dritto alle adolescenze difficili, al ruolo che deve assumere un genitore, all’esempio che deve dare, ai momenti di sbandamento che proviamo tutti nella vita, e lo fa ovviamente con l’influsso che il cinema di casa le ha inculcato. Come è di stampo bergmaniano l’astio e le dure frasi che il piccolo riserva al padre! La macchina da presa è quasi costantemente a mano a ridosso dei personaggi, traballante come emozioni che corrono veloci: perché non è un film lento e senza sussulti, anzi tutt’altro. Mentre la fotografia tendente al bluastro che si spinge verso il grigio esalta la lividezza del clima nordico. Il film, che vede nel cast un trio di nomi eccellenti del cinema danese, da Mikael Persbrandt a Trine Dyrholm fino a Ulrich Thomsen, nel 2011 ha vinto sia il Golden Globe che il premio Oscar al miglior film in lingua straniera.


 
 
 

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