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Insyriated (2017)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 10 feb 2019
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 5 mar 2019


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Insyriated

Belgio/Francia/Libano 2017, drammatico/guerra, 1h25’


Regia: Philippe Van Leeuw

Sceneggiatura: Philippe Van Leeuw

Fotografia: Virginie Surdej

Montaggio: Gladys Joujou

Musiche: Jean-Luc Fafchamps

Scenografia: Kathy Lebrun

Costumi: Claire Dubien


Hiam Abbass: Oum Yazan

Diamand Bou Abboud: Halima

Juliette Navis: Delhani

Mohsen Abbas: Abu Monzer

Moustapha Al Kar: Samir

Alissar Kaghadou: Yara

Ninar Halabi: Aliya


TRAMA: A Damasco la guerra infuria per le strade. Un appartamento è diventato una sorta di bunker in cui si cerca di nascondersi e di sopravvivere. Ogni giorno potrebbe essere l'ultimo: non vi sono uomini ma solo donne, anziani e bambini. All'arrivo di altri uomini che si profilano all'orizzonte, tutti cercano riparo in cucina, a eccezione di una giovane donna, rimasta sola dall'altro lato della porta.


Voto 7



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C’è ancora la guerra in Siria? Ne parlano ancora i giornali e i TG? Mah, forse sì, forse no. E se non ne parlano vuol dire che è finita o che non interessa tra le prime news?

Credo proprio che lì, la povera gente continua disperatamente e soffrire e a morire e noi ignoriamo bellamente e tiriamo avanti: d’altronde cosa potremmo fare, se non solo dispiacerci? Grazie a Dio, almeno qualche filmmaker ne vuol parlare e ci sbatte il mostro, quello della guerra, in faccia anche se purtroppo sono film, come questo, che vanno in pochissime sale – anzi per nulla! – lo vedono solo a qualche festival e poi arrivano in TV dove vengono puntualmente ignorato. E invece io ho voglia di parlarne, anche perché questo è un film interessantissimo!

Ma cosa c’è che attira così tanto la mia attenzione?


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È che se normalmente la guerra ci viene mostrata da dentro la pancia e magari anche in prima linea, con scoppi, proiettili, bombe, sangue tanto sangue, braccia e gambe strappate dal corpo, il regista belga Philippe Van Leeuw sceglie una via insolita e spiazzante: entra nella casa di una famiglia rimasta prigioniera nelle mura mentre fuori infuria la guerra siriana. È la guerra vista da una stanza di Damasco, è uno sguardo centripeto, come ha scritto qualche critico, è come essere nell’occhio del ciclone e con la netta sensazione che da un momento all’altro questo porta via tutto, casa e persone. Si avverte uno strano senso di ripiegamento verso l’interno, come essere al centro di una mortale spirale: fuori campo, fuori obiettivo della macchina da presa, ci sono gli uomini armati e la morte, dentro le mura la paura e la sofferenza mentale. Fuori i cecchini, dentro le persone tremanti e nascoste che non possono neanche guardare per strada per capire come vanno le cose e se possono fuggire, ammesso che ci sia la voglia di farlo. Perché lì, in quella casa, c’è tutto il loro passato e il loro presente: affetti e ricordi.


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La chiusura in cui vivono, il senso claustrofobico che emerge da ogni frammento di vita e di sequenza, come anche dai dialoghi frenetici tra i componenti della famiglia, donne uomini e bambini, rendono perfettamente l'idea di vittime in trappola, come topi schiacciati dalla disumanità che lentamente li porta a morire. O forse no, almeno quella è la speranza: resistere per sopravvivere, pensando al domani, che non arriva mai. Esiste allora ancora la guerra in qualche parte del mondo? La risposta la conosciamo bene e questo film così ben fatto, crudele ma realistico, diventa così uno spaccato di una vita che purtroppo è all'ordine del giorno per molti esseri umani.


Un film efficace e bello, in cui primeggia una delle attrici che più amo, Hiam Abbass.



 
 
 

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