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Io sono l'abisso (2022)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 21 feb 2023
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 14 mag 2023


Io sono l'abisso

Italia 2022 thriller 2h6’


Regia: Donato Carrisi

Soggetto: Donato Carrisi

Sceneggiatura: Donato Carrisi

Fotografia: Claudio Cofrancesco

Montaggio: Massimo Quaglia

Musiche: Vito Lo Re

Scenografia: Maurizio Leonardi

Costumi: Chiara Ferrantini


Michela Cescon: la Cacciatrice di mosche

Gabriel Montesi: l’Uomo che puliva

Sara Ciocca: la Ragazzina col ciuffo viola

Giordana Faggiano: Poliziotta

Sergio Albelli: il Prof

Lidiya Liberman: madre della ragazzina

Andrea Gherpelli: padre della ragazzina

Katia Fellin: madre dell’Uomo

Saul Nanni: Raffaele

Federico Vanni: dottore autopsia

Diego Martin Romei: Diego


TRAMA: Un serial killer che un giorno si trasforma in salvatore. Ma sarà solo l’inizio di un perverso intreccio di vite alla deriva.


Voto 4,5

Dando un’occhiata al cast artistico si scopre che i nomi dei personaggi non sono nomi propri ma semplicemente funzionali, indicano solo quello che svolgono nella trama. Primo elemento astruso. Viene spontaneo però chiedersi perché non chiarirlo con nomi più chiari e brevi, per esempio per l’Uomo che puliva chiamandolo “il netturbino”, o come viene chiamato elegantemente oggi, “l’operatore ecologico”, poi c’è la Cacciatrice di mosche, la mamma psicologicamente distrutta dall’uccisione della figlia che dal momento del delitto, trasandata, imbruttita, considerata matta perché sotto cure psichiatriche, si occupa solo di indagare, come fosse in investigatore privato, degli uomini che maltrattano le donne. La terza è la Ragazzina col ciuffo viola, un’adolescente caratterizzata dal ciuffo di capelli colorato che, in preda allo sconforto di essere sfruttata come baby-prostituta per distorti uomini maturi, cerca di suicidarsi affogando nel lago di Como che fa da sfondo ai criminosi avvenimenti che avvengono a Nesso. Poi c’è il predefinito “Prof”, che è più semplicemente il marito della Cacciatrice che di professione fa il professore di informatica, il quale ci appare anch’egli alquanto trasandato da quando non vivono più assieme e soffre, diversamente, il dramma della tragedia domestica.

La Cacciatrice è ossessionata dalle cose che osserva e, come tutti quelli considerati malati di mente (e sia chiaro sin da subito che non lo è se non per il fatto che soffre), non viene mai ascoltata con attenzione e ogni cosa che dice viene considerata pura fantasia. Quando invece ha un intuito sviluppato che le fa capire con grande perspicacia quello che sta avvenendo, anticipando sempre le lente deduzioni della polizia. Infatti, comprende subito la pista da seguire quando due donne mature e bionde frequentatrici di dancing in cerca di clienti vengono massacrate. Sa bene cosa chiedere ai potenziali testimoni incoscienti, sa osservare i particolari, sa collegare gli elementi a disposizione e quindi, alla fine, sa giungere alle conclusioni più probabili e quando si avvicina al clou diventa – è un classico – il facile obiettivo del cattivo.

Tutta la vita e tutti gli avvenimenti accadono sulle sponde del lago, che come un grande recipiente per i paesi e gli abitanti che vi vivono intorno, “se ci butti una cosa se la prende, poi te la restituisce” e difatti da lì viene rinvenuto un braccio di donna a cui manca un pezzo di unghia laccato di rosso, piccolissimo pezzo inanimato di un corpo che non si trova e che sveglia tutta l’attenzione della donna che non molla per un secondo della sua vita ciò che vuole raggiungere: il mostro è uno che vuole male alle donne e lei, quale madre che ha subito un torto inguaribile, lo vuole bloccare, intende fermarlo e farlo consegnare alla giustizia, anche con la segreta collaborazione della sua amica e confidente poliziotta.

E, ancora come da schema classico (Donato Carrisi non ha scritto nulla di nuovo in questo fronte occidentale), il serial killer è un uomo che da bambino ha sofferto tutte le pene dell’inferno avendo avuto una madre che manco gli badava ed un padre (un altro malato di mente) che gli faceva del male fino a torturarlo e ad addestrarlo per fare del male agli altri. Fino al punto di non scrollarselo più di dosso e immaginarlo sempre accanto, al di là della porta verde oltre la quale ode la sua voce che ancora oggi lo esorta a compiere efferati delitti e squartature dei corpi senza vita. E dire che l’inizio del film ce lo presenta solo come un maniaco distorto dal suo lavoro di spazzino: di alcune abitazioni portava a casa, e non nel centro di raccolta, la busta della pattumiera perché, come dice e come è anche vero (da questa considerazione non si sfugge) le persone possono mentire e dire tutto ciò che gli fa comodo ma “la spazzatura non mente”: dalle buste svuotate si osserva e si deduce ciò che comprano, ciò che mangiano, oggetti che utilizzano, i propri vizi e via dicendo. E lui spiana quei rifiuti sul tavolo di casa annotandoli su un quaderno, prefigurando la personalità degli utenti.

Ma un giorno nota il corpo di una ragazzina che sta affogando, entra nell’acqua del lago e la salva: da quel momento, tra un delitto e l’altro, non si rende conto che è diventato un salvatore e la salvata lo cercherà sempre come ancora di salvezza. Spiazzandolo in un ruolo che non aveva mai previsto nella sua vita. Ed intanto gli eventi e gli errori suggeriti dagli indizi seminati lungo il percorso dell’assassino conducono l’investigatrice dilettante sulla pista giusta. Il male è circolare, è la teoria del romanzo e del film di Donato Carrisi, ma è anche vero che quando la Cacciatrice (che tutti chiamano: la madre di…) raggiungerà l’obiettivo la sete di giustizia si placherà e potrà finalmente rasserenarsi e tornare alla vita quotidiana, pur priva dell’amata figlia, mentre assieme al marito decidono che il figlio (ma chiarito fino a che punto il suo ruolo?) è bene che resti in carcere.

Ebbene sì, sono molti i punti oscuri di questo racconto, certamente alcuni voluti e cercati dall’autore per una narrazione ellittica, piena di flashback e molti non detti, ma altri sicuramente trascurati o non saputi realizzare in immagini, caratterizzati dal buio e colori forti. È ben risaputo che un’arte è scrivere libri, un’altra è tradurlo in film, e qui Donato Carrisi ce ne dà un’ampia dimostrazione, realizzando un vero guazzabuglio intricato, dove non tutto mi è risultato chiaro, forse per colpa mia. Alcuni punti sono opachi e incomprensibili, volutamente, scimmiottando un’autorialità che lo scrittore non possiede, ribadita già dalla strana operazione per cui alla première dedicata alla stampa ha distribuito una scheda in cui, tra l’altro, vietava ai giornalisti di pubblicare il cast degli attori. Il personaggio che fa da perno è la donna martoriata dal dolore ma quello intorno al quale gira la storia è un mostro che l’autore ha disegnato imitando il famigerato Francis Dolarhyde del Manhunter di Michael Mann: calvo, maniaco, disturbato e insensibile, interpretato da Gabriel Montesi, ormai specializzato in ruoli da duro borgataro o da truce sbandato. Il cast è affetto da una recitazione alquanto enfatica che peggiora un film fin troppo caotico, per sequenze che lasciano continuamente dubbi nella speranza che vengano chiarite in seguito, raggiungendo l’apice di questo difetto per il ruolo non precisato del figlio della Cacciatrice, Diego, che probabilmente è l’autore “del” delitto tanto efferato quanto abominevole, causa del malessere della madre. Ma solo forse, non ci sono arrivato con certezza. Chi si salva è certamente la brava Michela Cescon, per il ruolo della inarrendevole donna che vuole solo verità.

È il caso esemplare in cui viene il dubbio che se il soggetto, che probabilmente letto nel romanzo risulterà migliore, fosse stato consegnato in mano ad un vero e migliore regista specializzato nel genere ne sarebbe scaturito un film degno di attenzione. Ennesima dimostrazione che è raro trovare uno scrittore che sia anche capace di essere un buon regista. Donato Carrisi (uomo che pare sempre compiaciuto di ciò che scrive) aveva iniziato questo compito con il sufficiente (ma anche quello migliorabile) La ragazza nella nebbia ma era precipitato nell’abisso con il pessimo L'uomo del labirinto, sprecando un cast di prim’ordine (Toni Servillo, Valentina Bellè, Dustin Hoffman, Vinicio Marchioni, Luis Gnecco), ma ora è cascato in quello che l’Uomo che puliva pronuncia in piena trance nel finale. Ed invece è solo la definizione che si potrebbe abbinare a questo mediocre film.

Un thriller che sfocia nel dramma, un’opera che ha l’odore della morte e il sapore della solitudine, dove vale la regola per cui non tutte le vittime diventano carnefici, ma tutti i carnefici sono stati vittime.

E l’Uomo che puliva lo è.



 
 
 

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