A Complete Unknown (2024)
- michemar

- 13 mag
- Tempo di lettura: 10 min

A Complete Unknown
USA 2024 biografico 2h21’
Regia: James Mangold
Soggetto: Elijah Wald (Dylan Goes Electric!)
Sceneggiatura: James Mangold, Jay Cocks
Fotografia: Phedon Papamichael
Montaggio: Andrew Buckland, Scott Morris
Scenografia: François Audouy
Costumi: Arianne Phillips
Timothée Chalamet: Bob Dylan
Edward Norton: Pete Seeger
Elle Fanning: Sylvie Russo
Monica Barbaro: Joan Baez
Boyd Holbrook: Johnny Cash
Dan Fogler: Albert Grossman
Norbert Leo Butz: Alan Lomax
Eriko Hatsune: Toshi Seeger
Big Bill Morganfield: Jesse Moffette
Will Harrison: Bob Neuwirth
Scoot McNairy: Woody Guthrie
P. J. Byrne: Harold Leventhal
Michael Chernus: Theodore Bikel
Charlie Tahan: Al Kooper
Ryan Harris Brown: Mark Spoelstra
Eli Brown: Mike Bloomfield
Nick Pupo: Peter Yarrow
TRAMA: All’inizio degli anni ‘60, il ventenne Bob Dylan arriva a New York dal Minnesota ed è ancora completamente sconosciuto ma comincia a farsi un nome nell’influente scena musicale metropolitana del periodo. La sua carriera ha un’ascesa fulminea: le sue canzoni e i suoi versi diventano un punto di riferimento anche a livello mondiale. Un periodo esaltante, culminato in una rivoluzionaria esibizione, con strumenti elettrici, al Newport Folk Festival nel 1965.
VOTO 7

Da qualche anno i produttori di Hollywood ha rivolto molta attenzione ai biopic dei maggiori esponenti della musica contemporanea o relativamente recente. I film biografici ci son sempre stati ma ultimamente si sono intensificate le produzioni sulla vita dei cantanti più celebri, tutti, ovviamente, difficilissimi da interpretare nelle sequenze di esecuzione dei brani, perché o si cede alla tentazione del playback oppure diventa necessario, direi indispensabile, avere la fortuna di ingaggiare un’attrice o un attore non solo bravo a recitare ma soprattutto a saper eseguire in maniera più che accettabile le canzoni più famose e importanti. Particolare che, si sa in partenza, diventa quasi impossibile quanto più bravi e inimitabili sono i personaggi.
Se prima erano di meno e più rari, vedi La vie en rose (su Edith Piaf con una straordinaria Marion Cotillard, un fulgido esempio) o il Bird di Clint Eastwood dedicato a Charlie Parker, o ancora Great Balls of Fire! – Vampate di fuoco su Jerry Lee Lewis e pochi altri, ultimamente è esplosa come una moda il cinema sui campioni recenti o viventi. Ed allora ecco Ray (Ray Charles), Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line (Johnny Cash), Bohemian Rhapsody (Freddie Mercury), Judy (Garland), Rocketman (Elton John), Elvis (basta il nome) e poi i meno riusciti su Aretha Franklin, Whitney Houston, Amy Winehouse, Whitney Houston. È un elenco parziale e tanti di questi hanno ricevuto comunque dei buoni riconoscimenti, a dimostrazione principalmente della eccellente performance degli interpreti. Chi dirige il film su Bob Dylan è James Mangold che già si era occupato del biopic su Johnny Cash, un altro artista umanamente poco trattabile.
Tutti cantanti importanti, che hanno fatto la storia della musica, ma un conto è girare un film su una persona che non vive più (più facile mitizzarla, parlarne senza un diretto contradditorio) ed un altro è scrivere e illustrare la biografia di un artista vivente e sempre molto in auge. Il caso di Dylan è eclatante proprio per questo e vi contribuiscono molti aspetti dell’uomo: un carattere per niente alla portata di mano, una lunghissima storia che è ancora importante, la ritrosità a farsi avvicinare, addirittura un prestigioso Premio Nobel per la Letteratura (“Per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”) che, come si temeva, non è andato a ritirare in prima persona.

Robert Allen Zimmerman, per tutti Bob Dylan (Timothée Chalamet), nato a Duluth il 24 maggio 1941, arriva da quel Minnesota a New York a soli 20 anni armato della sua chitarra per conoscere di persona il suo idolo, il cantante folk Woody Guthrie (Scoot McNairy) che trova però in ospedale molto malato. Lui è un totale sconosciuto, avendo suonato fino ad allora nella scuola e nei dintorni dei luoghi dell’adolescenza. La sua passione, quindi, è giusto il folk, anche se influenzato da blues e dal country. Per pura coincidenza, durante la visita all’ammalto, conosce l’esperto musicale ed organizzatore di concerti folk Pete Seeger (Edward Norton), suonatore di banjo, che rimane estasiato dalle sue personalissime esecuzioni dei brani più noti e di quelli scritti da sé. Gli si apre un’occasione che sfrutta molto bene perché chiunque l’ascolta si accorge dell’enorme talento di cui è dotato, oltre ad una certa dose di originalità e personalità.

Da questi episodi nasce la trama del film, scritta dallo stesso regista assieme a Jay Cocks, già sceneggiatore per quattro volte di Martin Scorsese, ed ispirata al soggetto di Elijah Wald, autore del libro Dylan Goes Electric! Newport, Seeger, Dylan, and the Night That Split the Sixties, a proposito della serata turbolenta del Festival di Newport, a Rhode Island, mitica festa della musica folk americana fondata dal promotore musicale George Wein, dal manager musicale Albert Grossman e dai cantanti folk Pete Seeger (appunto), Theodore Bikel e Oscar Brand, tutti personaggi che si vedono nel film. Cosa era successo quella notte del 25 luglio del 1965? Lì si esibì, oltre alla sua cara Joan Baez (Monica Barbaro), Bob Dylan con un gruppo di musicisti di rock’n’roll capitanati da Bob Neuwirth (Will Harrison), quindi strumentisti non acustici che si presentarono, compreso Bob, con chitarre elettriche assolutamente vietate in un festival che prevedeva solo musica folk. Fu una baraonda di contestazioni e litigate furiose, pubblico contestante, amicizie rovinate, perché il nostro non aveva mantenuto i patti con il suo mentore Pete Seeger e aveva portato brani rock all’insaputa dell’altro. L’ennesimo, non ultimo di una lunga lista, atto di ribellione di Dylan nei confronti delle regole scritte dagli altri, dall’incanalamento condizionato da promotori e produttori, da chi non accettava la sua totale indipendenza sia mentale che di scelta dei brani da suonare. Ma fu una nottata molto importante perché lì inizio la leggenda di Highway 61 Revisited, un album che non può mancare in casa dei veri fans.

Questo episodio, che è il momento culminante di tutto il film, spiega chiaramente il contenuto dell’opera di Mangold, che è appunto solo uno scorcio di vita dell’artista che abbraccia il periodo che va dal suo arrivo a NY fino – come dice il titolo del libro – alla conversione al suono elettrico, al R&R a tutto volume, ma, sia chiaro, sempre con testi che parlano dei consueti argomenti sociali, della politica, di pacifismo, di argomenti personali. Della vita quotidiana, insomma, quella che riguarda tutti i cittadini, americani e no, della povertà, dei diritti, del potere politico e dei cani della guerra, lui che ha vissuto, come gli statunitensi e gli europei, la crisi della Baia dei Porci a Cuba nel 1962. Chi non è più giovane, come me, sa di cosa parlo, di quando il mondo fu vicinissimo alla guerra mondiale atomica tra USA e URSS. Nel campo sociale lui aveva già idee chiare per i suoi testi ma forte e decisiva fu la relazione artistica e sentimentale (ma Bob ha mai provato vero affetto per una donna?) con Joan Baez, la più pacifista delle folksinger in circolazione, soprattutto in quegli anni.

Il film ripercorre quegli anni, le varie tappe di crescita artistica e di fama che non tardò ad arrivare, come sfondò nella popolarità, come tutti lo cercavano e aspettavano nuovi brani, i concerti, la conoscenza con piccoli cantautori e musicisti di grande talento e con i grandi del momento, a cominciare da Johnny Cash, che lo stimava molto e apprezzava la ventata di enorme novità che portava sia con la musica che con i testi: erano gli anni della grande contestazione giovanile e della Controcultura Americana degli anni ‘60 partita prima dal Regno Unito e approdata negli USA, che prese slancio proprio mentre il Movimento per i Diritti Civili degli afroamericani proseguiva nella sua fase di crescita. Si passava così dalla Grande Depressione cantata da Woody Guthrie trasferita, adeguata, nelle sue mani, alle contestazioni studentesche ispirate dalle poesie di Allen Ginsberg, Jack Hirschman, Lawrence Ferlinghetti e Jack Kerouac. Era l’humus di cui Bob Dylan si cibava e dove si abbeverava, crescendo di disco in disco, di successo in successo, sempre con il suo carattere chiuso, taciturno, indisponente, antipatico, mai disponibile se non alle sue condizioni. E incostante nei legami affettivi, facendo la spola tra Joan Baez e Sylvie Russo (Elle Fanning) - personaggio ispirata a Suze Rotolo, uno dei grandi amori giovanili - ma mandato a quel paese a più riprese ora dall’una ora dall’altra, tranne quando lui le abbandonava per altri progetti, ma – almeno per ciò che si nota nel film – pronto a sfruttare la loro ospitalità e perfino i loro soldi quando era squattrinato.

Non un bell’esempio di cordialità e generosità, ma questo era ed è Bob Dylan, il quale non si è mai curato dei giudizi degli altri, né se quello che faceva e le sue scelte sarebbero piaciute alla gente che gli girava attorno. Il suo scopo era avere una chitarra in mano, in ogni occasione, comporre in ogni momento, di notte e di giorno, interrompendo qualsiasi attività, uscendo da letto anche se era con una delle sue due care amiche. Opportunista? Non direi, forse semplicemente una persona che se ne infischiava, di tutti e di tutto. Questo era ed è, da ciò che si percepisce da lontano.

Dal punto di vista delle emozioni che il film comunica è per me difficile dar dei giudizi obiettivi perché, amando la musica più del cinema, vengo, in ogni occasione come questa, travolto dalle note e dalle parole dei testi, un po’ ricordando la mia gioventù e un po’ perché Dylan è uno dei miei principali idoli musicali e ne vengo travolto, perdendo la concentrazione sulla visione. Resta il fatto che molto spesso i biopic, quando non toccano momenti drammatici ben girati, diventano delle biografie cronachistiche ad episodi: non è questo il caso, ma, diciamolo, l’attesa generale era più per vedere come se la sarebbe cavata l’interprete che il contenuto. E l’attore se l’è cavata egregiamente.

Timothée Chalamet, si sa, è giovane ma è già un grande attore, è poliedrico e capace di mimetizzarsi se è il caso. James Mangold, la cui regia è stata compita in modo esaustivo, ha indovinato la scelta dell’attore protagonista, specialmente se si tiene presente che il fisico del cantautore non è replicabile, almeno tra gli attori disponibili oggi, ma la predisposizione naturale di Chalamet verso la musica e gli strumenti è stata già ammirata nel film alleniano Un giorno di pioggia a New York, dove suonava magnificamente il pianoforte e cantava benissimo. Stavolta è andato oltre e si è allenato a dismisura: dicono le fonti giornalistiche che ha dedicato anni alla preparazione per il ruolo e secondo alcune fonti, ha trascorso 5 anni e mezzo immergendosi nel mondo del leggendario cantautore, studiando la sua musica e il suo stile. Durante questo periodo, ha imparato a suonare la chitarra e l’armonica, affinando le sue capacità per poter eseguire le canzoni dal vivo nel film. Il suo insegnante di chitarra, Larry Saltzman (noto musicista di cinema), ha rivelato che lui ha seguito un metodo di apprendimento molto rigoroso, evitando scorciatoie e studiando ogni brano con grande attenzione. Grazie a questa dedizione, il regista ha deciso di permettergli di suonare dal vivo durante le riprese, invece di utilizzare il playback. E i risultati si vedono in maniera lampante: nei ciak Chalamet suona davvero la chitarra e lo fa molto bene, in maniera stupefacente, così come se la cava egregiamente nel cantare, qui sì imitando Dylan, come succede anche nei dialoghi in cui l’attore accentua una dizione nasale e farraginosa tipica del grande personaggio. Ecco perché un appassionato di musica e di Bob si distrae e bada al risultato sonoro.

A prescindere da ciò, il ritratto che ne traggono regista e attore è più che preciso (d’altronde, chi mai conosce bene da vicino un orso sociale come Dylan?), ci crediamo, insomma, e credo che il risultato sia molto interessante. La bella scoperta è la Baez di Monica Barbaro, prima di tutto perché la voce è molto vicina a quella originale e poi perché la ragazza è davvero brava, in gamba e dopo questa ottima prestazione spero di rivederla in altri film importanti. Elle Fanning è cresciuta ed è diventata ancora più brava, non più la semplice adolescente vista finora: è semplicemente una conferma. Un bel ruolo, serafico e paziente, è quello di Edward Norton, il quale ha dovuto anche lui prendere lezioni di banjo per poter sfoderare una bellissima prova d’attore musicale, oltre che come interprete che garantisce ogni volta ottimi rendimenti. È un grande professionista e lo sa dimostrare sempre, dispiace solo che un attore di questo calibro fatichi a trovare ruoli da protagonista dopo lo straordinario American History X e il capolavoro di La 25 ͣ ora. Produttori ciechi e sordi.

È un forte omaggio ad una figura iconica del XX secolo e non solo, un artista stanco di essere la proiezione del desiderio di qualcun altro. Perché, quando ti chiedono da dove nascano le tue canzoni, il tuo interlocutore, in realtà, rosica perché quelle note, quelle parole non sono venute in mente a lui. Lo interpreta un attore che diventa il personaggio con apparente facilità ma anche con rispetto e nello stesso tempo senza timore riverenziale. Gli è mancata solo quella specie di gamma di “stonature” snob che caratterizza la voce impareggiabile del grande Dylan. James Mangold dirige con sicurezza ed esperienza un’opera con molta musica (nei crediti, infatti, non c’è alcun autore delle musiche), sul “fare” musica e su persone che passano turbolenze, drammi, gioia, paura. La storia di uno totale sconosciuto inquieto e scorbutico. “Ero arrivato da lontano e avevo iniziato molto in basso. Ora il destino stava per manifestarsi. Sembrava che guardasse proprio me, dritto in faccia e a nessun altro.” Quello che è successo poi non interessava al regista ma è Storia. Difatti, il mattino dopo il concerto della disputa, mentre esce da Newport, Baez sorprende Dylan e gli dice che ha vinto, che finalmente ha ottenuto quella libertà da tutti gli altri che cercava. Lui visita Guthrie un’ultima volta e lascia la città sulla sua motocicletta.

Molto belli i duetti canori Dylan/Baez, ottima l’intesa tra i due interpreti, bravi a trasmettere allo spettatore, solo con qualche piccolo gesto o minima espressione mentre eseguono i brani, le vibrazioni positive e negative derivanti dallo stato del rapporto tra i due in quel momento specifico. Merito non solo di Chalamet ma anche dell’ottima Monica Barbaro (con lontane ascendenze italiche).

Like a complete unknown
Like a rolling stone
(Like a rolling stone, Highway 61 Revisited - Columbia Records 1965)
Riconoscimenti
Premio Oscar 2025
Candidatura per il miglior film
Candidatura per il miglior regista
Candidatura per il miglior attore a Timothée Chalamet
Candidatura per il miglior attore non protagonista a Edward Norton
Candidatura per la miglior attrice non protagonista a Monica Barbaro
Candidatura per la miglior sceneggiatura non originale
Candidatura per i migliori costumi
Candidatura per il miglior sonoro
Golden Globe 2025
Candidatura per il miglior film drammatico
Candidatura per il miglior attore a Timothée Chalamet
Candidatura per il miglior attore non protagonista a Edward Norton
Premio BAFTA 2025
Candidatura per il miglior film
Candidatura per il miglior attore a Timothéé Chalamet
Candidatura per il miglior attore non protagonista a Edward Norton
Candidatura per la miglior sceneggiatura non originale
Candidatura per il miglior casting
Candidatura ai migliori costumi


















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