L'affido - Una storia di violenza (2017)
- michemar
- 20 ago 2020
- Tempo di lettura: 4 min

L'affido - Una storia di violenza
(Jusqu'à la garde) Francia 2017 dramma 1h33’
Regia: Xavier Legrand
Sceneggiatura: Xavier Legrand
Fotografia: Nathalie Durand
Montaggio: Yorgos Lamprinos
Scenografia: Jérémie Sfez
Costumi: Laurence Forgue
Léa Drucker: Miriam Besson
Denis Ménochet: Antoine Besson
Thomas Gioria: Julien Besson
Mathilde Auneveux: Joséphine Besson
Saadia Bentaïeb: giudice
Emilie Incerti-Formentini: avv. Ghenen
Sophie Pincemaille: avv. Davigny
Martine Vandeville: Madeleine Besson
Jean-Marie Winling: Joël Besson
Florence Janas: Sylvia
Mathieu Saikaly: Samuel
Julien Lucas: Cyril
Jean-Claude Leguay: André
Martine Schambacher: Nanny
TRAMA: I Besson divorziano. Per proteggere il figlio dal padre violento, Miriam ne chiede la custodia esclusiva ma il giudice impone un affidamento condiviso. Antoine riesce così a mantenere i suoi diritti di padre e la presa sulla moglie. Julien, il loro figlio, farà di tutto affinché non accada il peggio.
Voto 7

Una vicenda di dolore e violenza sotterranea in una coppia separata, ben mascherata da chi la commette, soprattutto non recepita a dovere da chi, per incarico istituzionale, cioè il magistrato che se ne occupa in prima persona, non capisce e non ne intuisce né la gravità né il punto del non ritorno in cui era arrivata la drammatica situazione familiare. Quante volte leggiamo o ascoltiamo notizie brutte come questa? Quante volte siamo costretti a riflettere a posteriori dopo una tragedia casalinga, l’ennesimo uxoricidio, omicidio-suicidio di un uomo che ha perso la testa e commette violenza anche sui piccoli di casa? Tante, troppe volte. In alcuni casi perché la donna in questione è troppo buona e sopporta o ha vergogna di ammettere ciò che accade in casa. Ma purtroppo la maggior parte delle volte l’epilogo è drammatico. E quando accade è troppo tardi.
È il primo lungometraggio di Xavier Legrand, che alla 74ª Mostra di Venezia ha vinto sia il Leone d’argento per la migliore regia sia il Leone del futuro per l’opera prima. L’opera nasce dal suo corto, Avant que de tout perdre da cui inizialmente il regista aveva intenzione di realizzare una trilogia sul tema: tre corti in cui mostrare le faticose fasi di una separazione. Però, rinunciando al primo, si convinse che era più appropriato rappresentare le ultime due, cioè il divorzio e le violenze successive, compreso il tentativo di omicidio, la brutalità cioè che scaturisce dalla nuova situazione, quella creatasi dopo l’ufficializzazione della rottura legale. Per sviluppare il film e per capire bene ciò che succede in questi casi, il bravo regista ha assistito a udienze, partecipato a gruppi di aiuto per uomini violenti, seguìto un giudice del tribunale per i minori e intervistato delle vittime. In pratica ho svolto l’ottimo compito di cercare di entrare nella mente dell’uomo violento o, meglio ancora, che si scopre violento nel nuovo contesto.

Un film sulla violenza, dunque, quella familiare che fa tanta impressione, di cui sentiamo parlare quasi quotidianamente, che qui il regista lascia fuori dalla vista, fuori campo, più raccontato dalla signora in sede giudiziaria che visto con i nostri occhi, lasciandoci perfino il dubbio della veridicità della donna. È sincera? Oppure sta cercando di creare i presupposti per ottenere dal giudice l’affidamento unico dei due figli, in particolare del piccolo maschietto, dal momento la figlia sta diventando maggiorenne? Lui, Antoine, apparentemente tranquillo, franco, possibile che sia l’uomo nero così come dipinto dalla ex moglie e dal ragazzino che ha scritto una testimonianza per il giudice? Siamo davanti al classico caso della madre protettiva e un padre cacciato e umiliato, una figlia maggiorenne padrona del proprio destino e un figlio dodicenne che subisce più di tutti gli altri, costretto infatti ad accettare decisioni di altri: quelle di un giudice, del padre che non vorrebbe frequentare, della madre che pur preoccupata accetta di affidarlo ogni weekend all’ex marito. Non inganna però il viso preoccupato, se non addirittura angosciato, del piccolo Julien ogni volta che il padre lo aspetta sotto casa per portarlo via nel giorno che gli spetta.

La tensione mentale è spesso alta e la paura che qualcosa possa succedere domina il film, che non nasconde, anche per ammissione dello stesso Xavier Legrand, gli influssi di alcuni grandi autori come Alfred Hitchcock, Michael Haneke e Claude Chabrol. Il punto di vista nostro di spettatori è la prospettiva del figlio Julien e la scelta registica ha una motivazione molto semplice: nei casi di violenze domestiche, le voci dei figli e dei bambini in genere sono quelle meno ascoltate. Sebbene sia al centro della disputa tra Antoine e Miriam, egli non ha quasi voce in capitolo, mentre in realtà, come spesso succede, la realtà è arcigna, articolata, ambigua. Tecnicamente il film di Legrand è molto ben studiato e preparato e l’influsso hanekiano è notevolissimo. Non ascoltiamo alcun commento musicale, non c’è un solo brano che accompagni le scene. Sin dalla prima sequenza si notano solo i rumori di fondo, solo il picchiettare dei tacchi alti della giudice e della cancelliera che attraversano il corridoio che conduce nella sala del dibattito tra gli ex coniugi, suoni forti, amplificati, per riempire il vuoto acustico. Così come in seguito e per tutto il film, con l’unica eccezione della festa di compleanno dei fatidici 18 anni di Joséphine, dove la ragazza, accompagnata dalla band del fidanzato, cantano una bella versione addolcita del mitico brano dei Creedence Clearwater Revival, Proud Mary. Per il resto il silenzio e i suoni dell’ambiente. Come nel finale, dove l’insistente ticchettio di un orologio ci accompagna ai titoli di coda. Finale drammaticissimo, che sfiora la strage familiare, con una porta sfondata che ricorda l’incipit di Amour, di Michael Haneke, appunto.

Bravi sia Léa Drucker che Denis Ménochet, il quale si è sobbarcato il ruolo di una persona insopportabile e antipatica, ma chi stupisce, come sempre accade, è il piccolo Thomas Gioria che recita benissimo.
I premi ricevuti a Venezia 2017 erano giustificati. Regista interessante. Aspettiamolo, quindi.
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