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L'altra verità (2010)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 25 nov 2023
  • Tempo di lettura: 7 min

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L'altra verità

(Route Irish) UK/Francia/Italia/Belgio/Spagna 2010 dramma/thriller 1h49’


Regia: Ken Loach

Sceneggiatura: Paul Laverty

Fotografia: Chris Menges

Montaggio: Jonathan Morris

Musiche: George Fenton

Scenografia: Fergus Clegg

Costumi: Sarah Ryan


Mark Womack: Fergus

Andrea Lowe: Rachel

John Bishop: Frankie

Geoff Bell: Walker

Jack Fortune: Haynes

Talib Rasool: Harim

Craig Lundberg: Craig

Trevor Williams: Nelson

Russell Anderson: Tommy

Jamie Michie: Jamie


TRAMA: Frankie e Fergus sono due amici che lavorano come guardie per una società privata che si occupa di sicurezza in Iraq. Quando Frankie viene ucciso sulla strada che collega l'aeroporto alla Green Zone, la zona franca di Baghdad, Fergus è devastato dal dolore e dal senso di colpa. Poco convinto dalla spiegazione ufficiale decide di indagare per proprio conto e di andare in fondo alla vicenda per scoprire le reali cause e circostanze che hanno causato la morte dell'amico.


Voto 7

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La segreteria telefonica di Fergus ha registrato alcuni messaggi del suo amico fraterno Frankie che gli chiede disperatamente di richiamarlo al più presto perché è in difficoltà, ha la sicura sensazione, evidentemente, di essere in pericolo. Ha assoluta necessità di comunicargli notizie importanti, molto gravi. Lo si intuisce anche per lo stato d’animo dell’uomo che ascolta affranto la voce, più volte, sentendosi in colpa per non aver fatto o non aver potuto fare qualcosa per il compagno con cui è cresciuto. Lo dimostra la sequenza successiva che mostra i due adolescenti di Liverpool che si divertono a bordo di un traghetto, su cui scherzano e bevono da una bottiglia disturbando gli altri passeggeri. Fergus e Frankie sono sempre stati inseparabili amici per la pelle e risulta chiaro anche quando, da grandi, il primo è andato in Iraq, durante la guerra mossa dagli Stati Uniti, in veste di contractor alle dipendenze di una ditta privata, occasione allettante per guadagnare diecimila sterline al mese esentasse. Siccome l’altro è sposato e disoccupato, lui lo invita caldamente ad unirsi e portare a casa finalmente un buon gruzzolo. È Fergus, insomma, ad aver spinto Frankie ad accettare il maledetto lavoro, che però lo ha fatto rientrare in patria in una bara.

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Cosa è successo veramente in Medioriente, perché è caduto sul campo in circostanze che appaiono in maniera lampante così dubbie e misteriose, avvolte da reticenza e da una palese intenzione, da parte dei responsabili della ditta, di insabbiare la faccenda, senza dare sufficienti spiegazioni? Fergus non si dà pace, avvertendo profondi e atroci sensi di colpa avendo spinto l’amico ad accettare quel lavoro tanto rischioso. Spinto dalla mancanza di chiarezza, decide di indagare in prima persona, di andare a fondo e, perché no, fare giustizia, vendicare la perdita. Almeno per mettere a posto la coscienza che lo fa sentire responsabile dell’infausto accadimento. Per questo si reca al funerale e in chiesa apre, nottetempo, la bara sigillata, asportare per ricordo la cravatta dal cadavere, prendergli la mano promettendo vendetta e vedere inorridito come si è ridotto il viso martoriato a causa dell’esplosione del mezzo blindato su cui viaggiava.

Lo sporco lavoro del contractor, termine quasi anonimo e professionale, è invece il sinonimo di mercenario, ovviamente a pagamento, che in tempi di guerre sparse per il mondo - ma specialmente nei luoghi in cui affaristi senza scrupoli cercano di concludere contratti di sfruttamento di miniere o pozzi petroliferi hanno bisogno di uomini che proteggano loro e gli impianti – effettuano il loro compito armati alla pari dei soldati che lì combattono. Sono molto ben pagati e per questo è un lavoro attraente pur se altamente rischioso, che li fa andare spesso in posti molto pericolosi in cui perdono ogni traccia di umanità a contatto della popolazione locale (“turbanti” da uccidere senza pentimenti) e da cui – non è da escludere - tornano afflitti da disturbi psicologici. Fergus è un operatore molto esperto, ritenuto uno dei migliori nella sua zona, arrivando al punto di costruirsi lui stesso una piccola impresa nel settore. Ora è scosso dalla morte dell’amico del cuore e deve venire a capo della incomprensibile vicenda accadutagli, iniziando a parlare con i dirigenti della ditta e prendendo approcci con i vecchi contatti in Iraq, ma prima di tutto rivolgendosi alla vedova Rachel, il cui primo incontro si rivela alquanto turbolento, ritenendo, questa, Fergus il vero responsabile dell’uccisione del marito per esserselo portato dietro. Ora, però, sono due anime in pena senza il loro caro comune e si intuisce ben presto che prima o poi si consoleranno l’un l’altra.

Il punto di partenza delle indagini è il telefono cellulare che il morto è riuscito a far pervenire all’amico, contenente alcuni video che dimostrano come e perché Frankie si era inimicato i colleghi e i superiori, dopo un’efferata strage compiuta da questi ai danni di una famiglia innocente e di due ragazzini testimoni. Ecco il motivo per cui, da quel momento, lui era stato mandato continuamente a far la spola sulla strada tra l’aeroporto di Baghdad e la green zone, chiamata Route Irish (ecco il titolo del film, definita la strada più pericolosa del mondo: lì fu ucciso Nicola Calipari e ferita la giornalista Giuliana Sgrena), tutti i giorni e con un mezzo che sicuramente era stato reso vulnerabile da una blindatura appositamente inefficace. Non volevano farlo fuori apertamente, volevano semplicemente renderlo un facile obiettivo per un attacco o per loro stessa mano. Il cerchio, come si suol dire, intanto si stringe ma parimenti quello costruito da chi ostacola le indagini. Purtroppo, anche i contatti inglesi o iracheni vengono a conoscere la violenza di chi sta nascondendo la verità. Ma Fergus è decisissimo, compie qualche errore di valutazione ma giunge alla scoperta di elementi rilevanti, conscio che dopo aver fatto giustizia gli spetta solo un ultimo gesto, mentre lui e Rachel ammettono di amarsi. Ma non basterà.

Con la collaborazione, prima di tutto e per l’ennesima volta, dello sceneggiatore Paul Laverty e dei fidati Chris Menges alla fotografia, Jonathan Morris al montaggio, George Fenton alla colonna sonora, Fergus Clegg alla scenografia e Sarah Ryan ai costumi, molti dei quali quasi fissi nei suoi film, il film di Ken Loach, girato tra Liverpool e la Giordania, non si allontana, come potrebbe sembrare, dai suoi soliti temi, non trascura affatto le tematiche che hanno caratterizzato la sua continua opera, perché questo non è un film di guerra (che è, al massimo, collaterale), ma è un dramma dai risvolti thriller che nasce dalla necessità, ancora una volta, di dimostrare quanto possa influire la disoccupazione nelle scelte quotidiane della gente comune. Se Fergus va in una sorta di guerra anomala, se invita il suo fraterno Frankie, se la società e la legge permettono la costituzione di imprese che con il pretesto dello scopo della protezione, come guardie del corpo particolari, delle proprietà nate nelle zone di guerra, se tutto ciò succede, proviene da governanti che dimenticano le politiche del lavoro e del welfare e lasciano, girando lo sguardo altrove, che nascano queste attività a cavallo tra occupazione e illegalità, rendendo la persona più oggetto che soggetto. Attività che conducono ad una vera e propria licenza di uccidere al di fuori dei campi di battaglia, mettendo sullo stesso piano “turbanti” pericolosi e contractors, tanto far dedurre all’arrabbiato Fergus che l’assassinio impunito e disumano delle persone innocenti non fa altro che alimentare il processo per cui i giovani crescono e diventano terroristi, radicalizzandosi secondo le dottrine degli estremisti islamici. Riflessione che in tanti stiamo facendo proprio in questi giorni durante la violenta vendetta israeliana nei territori della Striscia di Gaza. Cosa penseranno di fare i superstiti alla fine di questa e quella guerra? Non si dimentichi che fino a non molti anni fa questi operatori erano protetti da un’ordinanza degli Stati Uniti che assicurava l’immunità agli agenti privati nelle zone di guerra, poi però cancellata da Barak Obama.

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Non pochi esperti, al momento dell’uscita nelle sale del film, criticarono il regista per essere stato troppo distaccato, per aver preso distanza dai personaggi, per non aver intriso la sua opera della partecipazione emotiva che normalmente sa offrire per accompagnare personaggi ed eventi. Può anche essere accettabile questa critica ma solo fino ad un certo punto: Ken Loach ci serve un piatto freddo di una ricetta rabbrividente di un menù disumano, stando incollato con la cinepresa ai corpi sofferenti o quelli insensibili dei personaggi, inserendo brevi filmati che paiono di repertorio ed invece sono girati dalla sua troupe e danno un’idea bellica credibile riaprendo la discussione sui reati commessi dagli occidentali ai danni degli arabi locali. Ci sono momenti talmente realistici che il film pare diventare un documentario, quasi un mockumentary. Se normalmente lui ci pone costantemente delle domande (con film a tesi o no) a cui non vuol dare volutamente delle risposte per farle dedurre a noi, in questo film lo immagino a braccia conserte ad aspettare quelle risposte sulla guerra, sulla sua drammaticità umana e sociale, sui lavori specializzati che sono derivati a latere. Tutto ciò non dimostra di essere “distaccati” né tantomeno aver scelto una strada facile per trattare gli argomenti: autopunizione e redenzione sono processi mentali che a volte richiedono freddezza nell’esposizione e nella narrazione, per diventare ancora più incisivi. Sì, si sarà anche scostato dalle passioni personali e dalla ribellione sociale, ma la scena finale, preceduta dal rifiuto del protagonista verso la vedova (gesto in quel momento incomprensibile, ma dopo chiarissimo), è l’ennesimo pugno nello stomaco dei suoi finali drammatici.

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Non tutti saranno del mio parere, tanti storcono il muso, ma il nostro autore è sempre lì, sul pezzo, a volte meglio a volte no, a volte con racconti più facili su argomenti di ordinaria ingiustizia sociale, a volte con temi complessi come questo, ma sempre stimolando la nostra attenzione su tematiche che l’opinione pubblica trascura, distratta, per comodità o per egoismo, girando gli occhi dalla parte opposta. E lo sa fare bene, scegliendo per i suoi personaggi attori professionisti o sconosciuti al grande pubblico o addirittura dilettanti, ma perennemente credibili, veritieri, realistici, anche per questo cast misto ma molto efficace, iniziando proprio da Mark Womack e dalla bella Andrea Lowe. Facciamoci caso: non c’è una volta in cui l’attore di turno ci sia sembrato fuori posto. Il che vuol dire che li sa scegliere e li sa far recitare e che noi crediamo alle sue storie. Infatti, il bravo Mark Womack sa oscillare tra la personalità fredda delle sue mansioni per le strade mediorientali e il fortissimo senso di fratellanza, come tra l’abitudine di tenersi tutto dentro e il bisogno dell’amore, sebbene della donna prima intoccabile, come anche tra il momento di mascolinità masochista del “Colpisci più forte! Più forte! Più forte!!!” e le mani separate da un vetro che constatano la sua tristezza inavvicinabile. Oppure quando, dopo averle spiegata la teoria per cui non è definibile tortura se non c’è sangue, le chiede se vuole un’altra birra.

Film del 2010 che ha il potere di essere tuttora valido, che sembra girato oggi, ancora attuale. Perché ancora tuonano i cannoni e sibilano i missili e oltre la guerra viaggiano strani figuri al soldo di chi stipula affari in quelle regioni approfittando delle occasioni che possono cogliere, dove però la gente muore uccisa o di stenti. Se va bene questi mercenari moderni tornano sfruttati e con ottimi ingaggi, altrimenti fanno la fine del povero Frankie.


Lunga vita a Ken!


 
 
 

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