L'arminuta (2021)
- michemar
- 23 giu 2022
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 3 giu 2023

L'arminuta
Italia 2021 dramma 1h50’
Regia: Giuseppe Bonito
Soggetto: Donatella Di Pietrantonio (romanzo)
Sceneggiatura: Donatella Di Pietrantonio, Monica Zapelli
Fotografia: Alfredo Betrò
Montaggio: Roberto Missiroli
Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Scenografia: Marcello Di Carlo
Costumi: Fiorenza Cipollone
Sofia Fiore: l'Arminuta
Vanessa Scalera: la madre
Carlotta De Leonardis: Adriana
Fabrizio Ferracane: il padre
Elena Lietti: Adalgisa
Andrea Fuorto: Vincenzo
Aurora Barulli: Pat
Davide Gagliardi: Guido
TRAMA: Agosto 1975. Una ragazzina di tredici anni viene restituita alla famiglia cui non sapeva di appartenere. All'improvviso perde tutto ciò che aveva con la famiglia adottiva: una casa confortevole e l'affetto esclusivo riservato a chi è figlio unico. Si ritrova così in un mondo estraneo, appena sfiorato dal progresso, dove dovrà condividere gli spazi ristretti di una casa piccola e buia con altri cinque fratelli.
Voto 7

Dal bel romanzo omonimo di Donatella Di Pietrantonio (che ha contribuito alla sceneggiatura), pubblicato nel 2017 e vincitore del Premio Campiello, il termine dialettale del titolo traducibile in “la ritornata” si riferisce alla protagonista, una tredicenne che, senza capirne la ragione, viene rimandata alla famiglia d'origine dopo essere vissuta fin da piccolina in una famiglia diversa che ha sempre creduto la sua. Si trova così ad affrontare una vita aspra, in un ambiente povero ed estraneo se non ostile. Solo la sorella Adriana, di poco più piccola, il fratello grande Vincenzo e il piccolo Giuseppe si distinguono, in modi diversi, in questa famiglia disordinata e confusa, e con loro la tredicenne (di cui non viene mai specificato il nome e che è individuata solo con il soprannome) riesce a stabilire relazioni.

L’inizio del film è molto esplicativo e rende immediatamente l’idea della drammatica situazione e di quale epoca in cui si svolge la storia: una Alfetta parcheggia velocemente davanti ad una casa di campagna (chiaramente di gente rurale e povera), il conducente scende e apre l’altra portiera per far scendere con maniere spicce la rossa adolescente che vi sedeva, la cui espressione mista tra l’arrabbiata e triste fa capire di non gradire affatto il momento e ciò che la attende. È ben vestita e ha una valigia con tutto il suo corredo e un cappotto elegante sul braccio. Adesso sta per essere consegnata da colui che le ha fatto da papà alla famiglia di origine, ai genitori biologici che l’avevano “donata” ad una cugina che non riusciva ad avere figli. Ora, per oscuri motivi che si chiariranno a fatica solo in seguito, è arrivato il momento che la ragazzina torni da dove era partita dopo solo pochi mesi di vita.

Facile immaginare quale sofferenza stia provando la giovane adolescente dopo essersi affezionata, cresciuta, educata e abituata nella famiglia di città, che riteneva con convinzione la sua vera famiglia, chiamando i genitori adottivi semplicemente papà e mamma, tanto che anche in questo momento e in seguito continua a ripetere che vuole tornare immediatamente dalla madre. Anzi scappa via, appena visto l’interno del casolare, ma l’uomo riprende vigorosamente e senza alcuna delicatezza il suo braccio per riportarla dentro, ripartendo con una forte accelerazione prima che la situazione peggiori. Ad attendere questa ragazzina, di cui non sapremo mai il nome di battesimo, mai chiamata da nessuno della numerosa famiglia di origine (piuttosto un “quella là”) ci sono il vero padre, un corpo cereo e flaccido del bravissimo Fabrizio Ferracane (un attore mai premiato a sufficienza) e la vera madre, una sorta di mater dolorosa sempre intenta a sbrigare le faccende casalinghe con una perenne smorfia di patimento, tra il dolore fisico e psicologico e le sventure che capitano solo alle famiglie povere e numerose. Sempre. Solo nel finale ci accorgeremo di un accenno al sorriso. Poi altri quattro figli, tra cui un quasi diciottenne che ha tralasciato la scuola per lavorare alla giornata nei campi (il padre lavora nella cava), un ragazzino più piccolo, un figlio piccolissimo ed una bambina, Adriana, l’unica alleata che trova la ritornata in casa.

La nostra protagonista fa fatica a credere ai propri occhi: come farà a vivere in quel posto dopo essersi abituata ad una vita agiata, a frequentare la scuola della città, ad essere vestita per bene e a trascorrere i pomeriggi con le amichette? Come potrà fare a meno dell’affetto della donna che l’ha cresciuta nonostante paia sempre poco in salute, triste e pensierosa, ma che non si è opposta al suo trasferimento dopo quasi tredici anni di convivenza? Come è possibile che l’abbia lasciata andare senza opporre resistenza? Per lei sono domande senza risposta che la abbattono sempre più pur rendendosi conto che deve adeguarsi alla difficile nuova situazione e cerca di rendersi utile, aiutata e quasi protetta dalla piccola Adriana: una bravissima Carlotta De Leonardis che in questa tenera età sembra possedere naturalmente le doti dei tempi di recitazione, sempre pronta ad intervenire in favore della nuova sorella con battute spesso divertenti, nel perfetto dialetto abruzzese che domina l’intero film. un dialetto non facile e ostico che però suona adeguatissimo all’ambiente e alla trama.

La sceneggiatura, scritta a quattro mani anche dalla scrittrice del romanzo, è spesso povera di dialoghi, facendo predominare silenzi pesanti e sguardi, di gesti significativi e di cene con il tegame al centro della tavola dove siedono tutti, in scene in cui la muta presenza del padre pesa come un severo giudice di un tribunale dove bisogna soppesare le parole e i comportamenti. L’uomo è sempre con gli occhi sul piatto, mentre la moglie osserva tutti sottecchi con la solita smorfia. Lo sprofondamento fisico e spirituale dell’arminuta è doloroso, è portatore di tristezza infinita, è causa di silenzi perduti nei ricordi dei tempi che non riesce a mettere da parte nella memoria (come potrebbe?), ma sempre nella recondita speranza che un giorno o l’altro, chissà, potrebbe accadere il miracolo, potrebbe succedere che quella che lei chiama mamma si presenti per riprendersela. Le scrive letter ma le risposte sono solo qualche banconota: ma una parola di affetto? È impossibile che si sia dimenticata di lei! Un vero e penoso coming of age, una crescita forzata causata dalla violenza morale, una maturazione che la ragazzina affronta con le sue sole forze per non dover cedere. Perché il futuro sarà per forza migliore, perché a scuola è la migliore e vince un premio che rappresenta il miglior incoraggiamento a continuare e a sperare nel domani liberatorio e di riscatto sociale.

Un racconto, come il romanzo, brullo come quelle campagne, doloroso come gli eventi luttuosi che nel frattempo accadono, aspro come i rapporti che aleggiano in quella casa, abbellito solo dalla speranza e dal sincero legame e affetto che dona Adriana. Come una disarmante opera del neorealismo italiano del dopoguerra, rafforzato dalla recitazione dei bravissimi attori e dal verismo dei personaggi, degni dei film in bianco e nero che illustrarono il nostro Paese. Ed è anche una delle tante fotografie dei rapporti umani che si sviluppano in maniera differente nelle famiglie, argomento non nuovo per un regista come Giuseppe Bonito, già autore di opere come Figli e del bello e difficile Pulce non c’è, quindi sempre riguardanti le problematiche tra genitori e figli.
Complimenti alla eccellente esordiente Sofia Fiore capace di esprimere ogni tonalità di atteggiamento dispiaciuto, dolente, sofferente, ma senza mai cedere alla crisi o al pianto, eccettuata qualche inevitabile lacrima. Lei è una pelle bianca dai capelli rossi, che colora il grigio che la circonda: una giovanissima attrice che sicuramente vedremo ancora.
Riconoscimenti
2022 – David di Donatello
Migliore sceneggiatura adattata
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