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L’ultimo imperatore (1987)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 22 mar 2024
  • Tempo di lettura: 5 min
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L’ultimo imperatore

(The Last Emperor) Cina/Italia/UK/Francia 1987 biografico 2h43’

 

Regia: Bernardo Bertolucci

Soggetto: Pu Yi (Sono stato imperatore)

Sceneggiatura: Mark Peploe, Bernardo Bertolucci

Fotografia: Vittorio Storaro

Montaggio: Gabriella Cristiani

Musiche: Ryūichi Sakamoto, David Byrne, Cong Su

Scenografia: Ferdinando Scarfiotti

Costumi: James Acheson

 

John Lone: Pu Yi (adulto)

Joan Chen: Wan Jung

Peter O’Toole: Reginald Johnson

Ying Ruocheng: governatore della prigione

Victor Wong: Chen Baochen

Dennis Dun: Big Li

Ryūichi Sakamoto: Amakasu

Maggie Han: Gioiello d’Oriente

Ric Young: addetto agli interrogatori

Vivian Wu: Wen Hsiu

Cary-Hiroyuki Tagawa: Chang

Jade Go: Ar Mo

Fumihiko Ikeda: Yoshioka

Lisa Lu: imperatrice vedova Cixi

Richard Vuu: Pu Yi (tre anni)

Tsou Tijger: Pu Yi (otto anni)

Tao Wu: Pu Yi (quindici anni)

Fan Guang: Pu Ye (adulto)

 

TRAMA: La vita di Pu Yi, l’ultimo imperatore della Cina: da fanciullo cui tutto era dovuto, essendo “figlio del Cielo”, a re fantoccio del “Manciukuo” in mano ai giapponesi, a prigioniero dei campi di rieducazione politica ai tempi di Mao, dopo un periodo passato in Siberia ostaggio dei russi. Fino alla anonima morte, avvenuta durante la rivoluzione culturale.

 

Voto 8


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Questo ampio resoconto della vita di Pu Yi, l’ultimo imperatore della Cina, segue le tumultuose vicende del regno del sovrano. Dopo essere stato catturato dall’Armata Rossa come criminale di guerra nel 1950, Pu Yi ricorda la sua infanzia dalla prigione dove è rinchiuso. Ripensa alla sua sontuosa giovinezza nella Città Proibita, dove gli era concesso ogni lusso ma (s)fortunatamente al riparo dal mondo esterno e dalla complessa situazione politica che lo circondava. Nel frattempo, la rivoluzione si diffondeva in Cina e il mondo che conosceva veniva drammaticamente capovolto.



Viene spontaneo riflettere sulle carriere di Bernardo Bertolucci e David Lean, che sono senz’altro divergenti, ma si sovrapposero per un breve periodo e quando il regista italiano realizzò questo colossal, una vera epopea, acclamata a livello internazionale, l’influenza di Lean è certamente palpabile. Ciò, in parte, è dovuto alla partecipazione di un grande attore come Peter O’Toole, il cui momento clou della carriera coincise con Lawrence d’Arabia e in parte alla natura narrativa biografica di un personaggio molto interessante. Infatti, il film racconta la vita di Pu Yi (interpretato da adulto da John Lone), l’ultimo imperatore della Cina, utilizzando una struttura di flashback dove il presente è il 1950. allorquando è un prigioniero politico nel carcere politico di Fushun. Lì tenta addirittura il suicidio ma si salva ed è quindi costretto a scrivere una confessione forzata, che diventa così lo spunto dell’opera, facendo scivolare all’indietro il tempo e narrando gli eventi chiave della vita dell’uomo tra il 1908 e gli anni ‘40.



Gran parte del film riguarda la vita del piccolo e poi giovane imperatore nella bellissima Città Proibita. Vediamo così il momento in cui egli viene convocato bambino dall’imperatrice Cixi che nomina lui come prossimo imperatore sul punto di morte, dopo essere rimasta vedova a causa della morte dell’imperatore Guangxu, avvelenato dalle persone che gli erano più vicine subito dopo aver detto di voler riformare da cima a fondo l’impero. Il ragazzino si scopre spaventato e solo, nonostante un esercito di eunuchi e cameriere che soddisfano i suoi capricci. Dopo che la Cina divenne una repubblica nel 1912, Pu Yi (ormai un viziato e capriccioso sovrano) incontra suo fratello e scopre che non è più imperatore e il suo dominio è stato ridotto nei limiti territoriali della Città Proibita. Lo scozzese Reginald Johnston (Peter O’Toole) arriva per essere il suo tutore e sposa due donne. In seguito, nel 1924, egli viene rimosso ed esiliato a Tientsin dove vive una vita dissoluta e decadente fino a quando i giapponesi lo insediano in qualità di imperatore della Manciuria dopo averla invasa e conquistata, fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il Giappone viene sconfitto e l’esercito sovietico lo cattura.



Per la maggior parte, il film adotta un tono solenne e si avverte la tristezza che accompagna la fine di un’epoca e il profondo senso di solitudine che caratterizza la vita di Pu Yi. Nonostante le omissioni storiche del tempo che evidentemente non interessano al regista, il personaggio appare come una figura fredda e silenziosa: circondato da eunuchi e funzionari, è privato da conforto, amore, gentilezza. Si avverte la sensazione (posso sbagliarmi) che Bertolucci perlustri l’intera vita del protagonista senza però mai voler entrare in empatia con lui. Il film è sontuoso, artisticamente affascinante, ma resta distaccato dalla persona inquadrata nelle sue varie età.



Il lavoro che svolge la fotografia di Vittorio Storaro è magnifico, passando dal mosaico dei rossi e dei gialli nell’era della Città Proibita ai colori smorti, in pratica desaturati, delle immagini carcerarie degli anni ‘50. Fastosi sono i costumi, esaltante la scenografia di Ferdinando Scarfiotti, mentre la sceneggiatura porta quasi sempre a far parlare i vari personaggi in inglese e un po’ in francese, mentre le lingue naturali avrebbero dovuto essere mandarino, cantonese e giapponese. Ma i tempi non erano ancora maturi per quello che succede oggi con il cinema attuale, che lascia intatte le lingue originali dei popoli delle trame. È anche ovvio che necessita stare sempre attenti ai salti temporali per via dei tanti flashback, che inevitabilmente interrompono il flusso narrativo. E il film non è per nulla breve.


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Il film è indubbiamente bello, magnifico da guardare, ma sembra estraneo al cinema che ci si potrebbe aspettare da un autore così politico e va inquadrato come prima tappa della “Trilogia dell’altrove”, proseguita con Il tè nel deserto e Piccolo Buddha.

Un’opera intrisa di idealismo e sentimentalismo e non immune da semplificazioni didascaliche, tutti aspetti che però servivano a realizzare un film in gradimento di tutto il mondo. Opera che si potrebbe racchiudere, come senso, nella frase di Bertolucci: “È l’itinerario di un uomo che passa dall’oscurità della nevrosi alla luce della quotidianità”, quanto mai vera e riassuntiva della esistenza di Pu Yi, uomo triste che vediamo anziano nel finale sparire lentamente dopo aver comprato il biglietto per entrare in quella che era la sua reggia: il “figlio del cielo”, al termine del suo pellegrinaggio sulla terra, retrocesso a comune cittadino, che impara finalmente la serenità di una vita anonima.

Come la morte, che ci rende tutti uguali.



Riconoscimenti

1988 - Premio Oscar

Miglior film

Migliore regia

Migliore sceneggiatura non originale

Migliore fotografia

Migliore scenografia

Migliori costumi

Miglior montaggio

Miglior sonoro

Miglior colonna sonora

1988 - Golden Globe

Miglior film drammatico

Migliore regia

Migliore sceneggiatura

Miglior colonna sonora

Candidatura miglior attore in un film drammatico a John Lone

1989 - Premio BAFTA

Miglior film

Migliori costumi

Miglior trucco

Candidatura migliore regia

Candidatura miglior attore non protagonista a Peter O’Toole

Candidatura migliore fotografia

Candidatura migliore scenografia

Candidatura miglior montaggio

Candidatura miglior sonoro

Candidatura migliori effetti speciali

Candidatura miglior colonna sonora

1988 - David di Donatello

Miglior film

Migliore regia

Miglior produttore

Miglior attore non protagonista a Peter O’Toole

Migliore sceneggiatura

Migliore fotografia

Migliore scenografia

Migliori costumi

Miglior montaggio

Candidatura miglior attrice non protagonista a Vivian Wu

1988 - Premio César

Miglior film straniero

1988 - Nastro d’argento

Regista del miglior film straniero

Migliore scenografia

Miglior montaggio

Miglior doppiaggio maschile a Giuseppe Rinaldi



 
 
 

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