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L'uomo che fuggì dal futuro (1971)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 14 giu 2021
  • Tempo di lettura: 5 min

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L'uomo che fuggì dal futuro

(THX 1138) USA 1971 fantascienza 1h26’


Regia: George Lucas

Sceneggiatura: George Lucas, Walter Murch

Fotografia: Albert Kihn, David Myers

Montaggio: George Lucas

Musiche: Lalo Schifrin

Scenografia: Michael D. Haller

Costumi: Donald Longhurst


Robert Duvall: THX 1138

Donald Pleasence: SEN 5241

Don Pedro Colley: SRT, l'ologramma

Maggie McOmie: LUH 3417

Ian Wolfe: PTO

Marshall Efron: TWA

Sid Haig: NCH

John Pearce: DWY

Irene Forrest: IMM

Gary Alan Marsh: CAM

John Seaton: OUE

Eugene I. Stillman: JOT

Raymond Walsh: TRG

Johnny Weissmuller Jr: robopoliziotto


TRAMA: In una futura società autoritaria, gli uomini vivono sottoterra e sono ridotti a essere un numero di matricola. Perfino le differenze tra i sessi sono state abolite, l'amore proscritto, la riproduzione affidata a tecniche di laboratorio. Così quando THX 1138 s'innamora di LUH3417 l'autorità interviene mettendo in moto tutta la sua capacità repressiva per difendersi. Solo uno dei due ribelli riesce a salvarsi.


Voto 7

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George Lucas lo portiamo nel cuore per un titolo magico: Star Wars. Un titolo che vuol dire un marchio, un franchising, una serie, un’epopea, e non si fa mai caso al fatto che al suo attivo ha, come regista, solo sei lungometraggi, quattro dei quali con quelle due parole suggestive. Ma come autore si è fatto le ossa con una discreta serie di corti e documentari e, come sceneggiatore, il suo lavoro più pesante e proficuo, con ben 129 crediti tra film, corti e videogames. Eppure lo ricordiamo solo per le guerre stellari. Ebbene, questo suo esordio (quante volte è capitato ai futuri grandi di iniziare con un piccolo gioiello?) è un gran bel film molto trascurato e degno invece di molta attenzione, almeno per il fatto che non badava al box office ma alla sostanza, tramite un racconto innovativo, rivoluzionario, certamente impegnativo. Il soggetto, scritto da sé ovviamente, è una storia di fantascienza asettica e bianca, come la scenografia, e ambientata in un futuro distopico, una società che ritroveremo ancor più lugubre nel mitico Orwell 1984 (il bellissimo film di Michael Radford), e con un ancora pressoché sconosciuto Robert Duvall (Il Padrino arriverà l’anno seguente) come protagonista. Da segnalare che il titolo originale ha avuto molte citazioni in seguito: la sigla THX 1138 è comparsa numerose volte in videogames, film e canzoni, tramite targhe di auto, codici utili ai games e quant’altro.

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L’argomentazione distopica, termine tanto spesso usato oggi, una volta era trattato con estrema cautela e solo dai grandi autori. Lo scrittore britannico Neil Gaiman, anche fumettista, giornalista e sceneggiatore televisivo e radiofonico, definisce la fantascienza distopica “fiction speculativa”, centrando alla perfezione la complessità del termine e dell’argomento, dandone giustamente anche un valore filosofico che non si può trascurare. Anzi. Se per troppo tempo letteratura e cinema di fantascienza sono stati considerati leggeri o d’evasione, con “distopia” si è sancito un livello del tutto diverso fin qui concepito, filosofico ed esistenziale, appunto. Tornando al film, succede che a soli 23 anni George Lucas si presenta alla prova finale del master in cinema della University of Southern California con un cortometraggio intitolato Electronic Labyrinth THX 1138 4EB, che quattro anni dopo, con i pochi capitali che avrà a disposizione, svilupperà in un lungo intitolato semplicemente THX 1138, di fatto (r)innovando quasi dal nulla la fantascienza distopica fino ad allora concepita. Il soggetto è originale ed è scritto da Lucas assieme ad un apprezzato montatore della nuova Hollywood, Walter Murch.

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Nel XXV secolo l’umanità vive sottoterra, i ritmi dell’esistenza sono sotto il controllo delle macchine, vige una sorta di dittatura emotiva per cui sono proibite finanche le effusioni, oltre a qualunque tipo di rapporto sentimentale e sessuale. Esistono ologrammi erotici attraverso i quali sfogare le pulsioni, ma le energie creative intellettuali e fisiche di uomini e donne sono morigerate da psicofarmaci. Il metro di giudizio è basato sull’efficienza produttiva in ambito di lavoro, tutti sono rasati a zero e vestono di bianco, non esistono più nomi di battesimo ma numeri e sigle. Robert Duvall, il protagonista, è appunto THX 1138. Il film è ovviamente debitore di una grande narrazione distopica classica, addirittura pionieristica, uno dei prototipi del filone: il romanzo Noi di Evgenij Ivanovic Zamjatin, dove pure gli esseri umani sono rappresentati da un codice e dove parimenti il solo valore riconosciuto dall’autorità dello Stato Unico è quello del lavoro. Per Zamjatin però la metafora riguarda lo stato totalitario stalinista del presente russo (il romanzo è del 1924). Lucas invece si abbevera ai classici della letteratura di fantascienza tenendo in mente la contemporaneità americana. Addirittura alcuni discorsi del supervisore di THX 1138, ovvero SEN 5241 (Donald Pleasence), repressivi e deliranti, sono estratti di dichiarazioni di Richard Nixon! E fin qui la politica. Ma dove sta la filosofia? La risposta è nell’antidoto alla società antiumanistica alla base del sistema gerarchico automatizzato immaginato da Lucas e Murch: amo dunque sono.

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Quando THX 1138 e LUH 3417 (Maggie McOmie) fanno l’amore, vengono denunciati e arrestati dai poliziotti robot. Accade anche ai protagonisti di 1984, ma nel caso di Orwell la repressione sessuale fa parte di un sistema di coercizione che ha ben altri scopi: in questo film è invece il modo per bloccare l’energia propulsiva che può portare alla ribellione. L’unico atto sessuale concesso è la masturbazione, ma meccanica, non autogena, davanti ad uno schermo olografico che riproduce video erotici. La scenografia si fa protagonista, con universo monocromo, tutto bianco, spazi vuoti e simmetrici, rappresentante anch’essa come una forma di repressione. Predomina la voce di un computer dalla voce monotona, Ciclope (tre anni dopo HAL9000), che ripete ossessivo: “Cosa c’è che non va?”. L’armadietto dei medicinali mostra solo droghe, garanzia della totale assenza di libertà, di essere e di pensare. E d’amare. L’impossibile sentimento tra THX e LUH diventa gelida e bianca poesia e trova il culmine in una scena d’amore quasi metafisica, nella nudità che contrasta nella soffocante spaziosità.

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Volendo cercare motivi sociali sottostanti, si può leggere il desiderio del regista di attaccare il sistema economico di Hollywood, puntando il dito contro il capitalismo e il mercantilismo, proprio come questa grottesca e terrificante rappresentazione della religione dove una sorta di cabina telefonica è addirittura una mini cappella in cui confessarsi e professare una fede alquanto claudicante, quasi forzata, certamente non sincera: la figura divina, dalla voce robotica, rappresentata da un’immagine simile ai Gesù della iconografia ortodossa, sembra essere più interessata al sistema produttivo che ai problemi umani. In questo terrificante scenario spicca una regia cosciente di ogni particolare, di ogni risvolto (dis)umano, dei pericoli di una politica sempre più invadente. E nel contempo la prestazione recitativa di un asettico ma espressivo attore che ci fa da tramite con il regista: Robert Duvall dà il primo saggio del suo talento che con Coppola troverà la consacrazione, anche se solo mezzo passo indietro rispetto a quei personaggi principali. Il finale sulla superficie terrestre è disperato e liberatorio, con un sole enorme e rosso al tramonto, con la scura silhouette del fuggitivo, non più bianca.

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Perché questo film è dimenticato?


 
 
 

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