La casa di Jack (2018)
- michemar

- 1 mar 2019
- Tempo di lettura: 7 min

La casa di Jack
(The House That Jack Built) Danimarca/Francia/Germania/Svezia/Belgio 2018, horror, 2h32'
Regia: Lars von Trier
Sceneggiatura: Lars von Trier
Fotografia: Manuel Alberto Claro
Montaggio: Jacob Secher Schulsinger, Molly Malene Stensgaard
Scenografia: Simone Grau Roney
Costumi: Emilie Bøge Dresler
Matt Dillon: Jack
Bruno Ganz: Verge
Uma Thurman: donna
Siobhan Fallon Hogan: Claire Miller
Sofie Gråbøl: donna
Riley Keough: Simple
Jeremy Davies: Al
Jack McKenzie: Sonny
Mathias Hjelm: Glenn
Ed Speleers: Ed
TRAMA: Stati Uniti, 1970. Jack è un ingegnere psicopatico con tendenze ossessivo-compulsive. Dopo aver ammazzato una donna che gli aveva chiesto soccorso per strada, si convince di dover continuare a uccidere per raggiungere la perfezione. Ogni suo omicidio deve essere un'opera d'arte, sempre più complessa e ingegnosa. Inizia così una partita a scacchi con la polizia, lunga dodici anni, condotta dal più astuto e spietato omicida seriale.
Voto 7,5

La casa di Jack, o meglio la casa di Lars von Trier, è fatta di tre piani. Non mi riferisco alla sua planimetria ma ai tre piani di racconto con cui ci ha sbattuto in faccia il suo ultimo lavoro, tre livelli narrativi ovviamente correlati e interdipendenti. Il colloquio-confessione tra il protagonista Jack e Verge, una misteriosa voce di vecchio che lo ascolta e lo controbatte. Le sue scorribande da serial killer iniziate forse per caso ma sicuramente da una predisposizione mentale che prima o poi doveva esplodere nell’azione concreta. L’arrivo alla stazione terminale del viaggio intrapreso sin dall’inizio verso l’Ade, verso quell’inferno dantesco pieno di fuoco e magma che lo attende, che il protagonista cercherà di evitare cercando di compiere un’acrobazia quasi impossibile, in una sequenza che sa tanto di reality diabolico.
Tre livelli di narrazione che si mescolano di continuo con la tecnica del fil rouge: i cinque episodi di efferatezze operate da Jack, cinque “incidenti” come li definisce il pannello che li presenta volta per volta, sono intervallati e continuamente accompagnati da una continua affabulazione che assume le sembianze di una lunga confessione, tra l’ammissione delle colpe per i brutali assassini compiuti da Jack e l’esposizione delle sue teorie riguardanti la bellezza artistica e la ricerca della perfezione. Sì, perché lui cerca l’affermazione assoluta dell’essenza artistica nel compiere le violenze, nulla è lasciato al caso o alla pur presente ira momentanea che lo coglie durante le sue gesta sanguinarie. Il suo misterioso interlocutore è Verge, colui che si rivelerà alla fine come un vero Virgilio, il quale tra osservazioni e domande cerca di capire le intenzioni e le motivazioni che spingono quell’uomo a comportarsi in tale maniera. Diventa così questo ininterrotto colloquio la strada maestra che ci condurrà fino all’epilogo dantesco.

Jake: - Posso spiegare tutto, ma forse posso descriverlo, come un tipo di sete di sangue, un’esperienza di un ermellino in un pollaio. Conosci le poesie di Blake sull’agnello e la tigre? (nota: William Blake, poeta, pittore e incisore inglese, vissuto 1757/1827)
Verge: - Conosco Blake superficialmente ma temo che non sfuggirò a un tutorial completo.
Jake: - Dio creò sia l’agnello che la tigre. L’agnello rappresenta l’innocenza e la tigre rappresenta la ferocia. Entrambi sono perfetti e necessari. La tigre vive di sangue e uccide, uccide l’agnello e questa è anche la natura dell’artista.
Verge: - Leggi Blake come un diavolo legge la Bibbia! Dopotutto il povero agnello non aveva chiesto di morire per far diventare anche l’arte più grande.
Jake: - All’agnello è stato donato l’onore di vivere per sempre nell’arte e l’arte è divina.
Questo breve dialogo, uno dei tanti appunto seminati lungo il percorso narrativo, è paradigmatico, in quanto racchiude l’essenza del pensiero di quell’uomo, le convinzioni della sua mente malata, e ne rappresenta anche una maniera di autoassoluzione del perverso comportamento. A volte questi intermezzi contengono anche compiacenti citazioni illustri, tipo lo sventolio dei fogli indicanti parole significative dei discorsi farneticanti del tutto simile al mitico videoclip in cui Bob Dylan accompagnava la sua “Subterranean Homesick Blues”.

I cinque “incidenti” sono mostrati da Lars von Trier in maniera provocante ma mai irritante, preparando con calma nel terreno dell’azione quell’humus necessario affinché avvenga ciò che ci aspettiamo. Ma le sue intenzioni vanno oltre: rifiutando ogni impostazione classica del cinema horror, LvT ci spiattella senza filtri le conseguenze della mente malata di Jack, persona disturbata totalmente in preda del comportamento ossessivo-compulsivo che lo induce prima a uccidere, a migliorare esteticamente l’azione poi, e infine a dare forma finalmente alla casa che sogna da tempo – lui che si definisce un ingegnere e forse lo è anche - casa che non immagina fatta di cemento ma di carne. Della carne dei corpi delle sue innumerevoli uccisioni. Corpi che conserva e congela come manichini nella grande cella frigorifero di casa sua.

Eppure all’inizio era sembrato un uomo qualunque, che viaggiava nel suo indispensabile (!) van – ovviamente di colore rosso sangue – allorché incrocia sulla strada una bella signora che ha la sua auto ferma per una foratura. Le insistenze di quella bionda (Uma Turman) per essere aiutata, le sue allusioni offensive verso Jack, la sua supponenza, danno il primo “la” alla reazione violenta dell’uomo. Il quale, ritenendo del tutto giustificato il suo conseguente comportamento (un bel colpo di cric sul bel viso della petulante signora), si interroga su come si potrebbe, perché no, fare molto meglio la volta successiva. E così inizia una catena che lo porta – a suo sentire– a oltre 60 assassinî. Sempre più divertenti (per lui ovviamente), sempre più chirurgici (nel senso più completo del termine), sempre più efferati, fino al sublime progetto di uccidere una decina di persone bloccate in fila con un solo colpo di proiettile “full metal jacket”, di kubrickiana memoria.
Sarà l’epilogo. Sarà, data la oggettiva difficoltà e alla estrema “bellezza” del gesto artistico pur se malato ed efferato, l’occasione per essere finalmente intercettato dalla polizia, che in tutti quegli anni brancolava nel buio. È a questo punto che si fa vivo e finalmente presente l’anziano uomo che interloquiva con Jack sin dal principio: è proprio Verge, il Virgilio della situazione, nei continui panni di confessore-interlocutore-traghettatore che lo conduce alle soglie del luogo che gli spetta di diritto, quell’inferno che Dante ha visitato proprio in compagnia e sotto la guida dell’antico Poeta. Eppure, dopo tante parole, il vecchio, pur se convinto della giustezza della condanna che aspetta Jack, gli mostra comunque le poche alternative per evitare la resa, perfino una via di fuga che però è davvero ardua, molto difficile da guadagnare. Il magma rosso fuoco che scorre sotto il loro percorso aspetta di punire l’ingegnere psicopatico, implacabile, ma non riesco a non immaginare che LvT gli darebbe con piacere la possibilità si sfuggire alla punizione e cavarsela ancora una volta, magari per sempre.

Questo epilogo dantesco conferma la visione del cinema del regista danese che in ogni caso è arte visiva pura. Il suo sguardo di autore si infiamma con un’opera con queste caratteristiche e con un finale diabolico e infernale. Quella lunga sequenza terminale, i colori accesi di un inferno immaginato, l’aria sospesa creatasi durante il velleitario tentativo di salvezza da parte di Jack mi hanno dato una idea lynchiana per questa apoteosi, ancor più surreale di tutta la storia. Ma è impossibile sfuggire all’inferno che è nell’uomo e nella sua ferocia, all’inferno che è anche nella mente di LvT, regista irritante e artista del cinema sempre provocatorio. Il risultato soddisfa il danese, che sicuramente sghignazza nascosto, ma anche, e perché no, apertamente. Nel 2011 a Cannes era stato dichiarato “persona non desiderata” dopo le sue dichiarazioni a favore del nazismo e nel film (proiettato in una manifestazione secondaria a Cannes 2018, quindi tornato nel Festival ma in castigo) si prende le sue piccole rivincite facendo dire al malefico protagonista che “il nazismo, il fascismo e tutte le dittature sono arte e producono le migliori icone della storia”, come i grandi artisti tipo il pianista Glenn Gould che viene a più riprese mostrato al pianoforte nel film tra un omicidio e l’altro. Sfrontato, nel film esalta la perfezione e la bellezza degli Stukas tedeschi, aerei da bombardamento usati dalla Luftwaffe. Praticamente rientra dalla porta di servizio per parlare ancora di nazismo alla sua maniera irritante.

Celebre per non avere un ottimo rapporto con i giornalisti, sulla Croisette Trier si è limitato a poche battute di presentazione del suo film affermando in una breve intervista: "Per molti anni ho fatto film sulle donne dall'indole buona. Ora ne ho fatto uno su un uomo malvagio: è un compito che mi ero dato, che era molto piacevole e forse anche un po' infantile, soprattutto quando ho capito che tutte le donne sembravano estremamente stupide. È anche rigenerante con un personaggio principale che può fare praticamente qualsiasi cosa quando si tratta di atti terribili e di farla franca. Ho rivisitato alcune ottime pubblicazioni di Patricia Highsmith per la giusta ispirazione.” E non solo, in altre occasioni ha chiarito che è “il film più brutale che io abbia mai realizzato” tenendo presente “che la vita è crudele e spietata”.
L’improvvisa apparizione sullo schermo, dopo tanto dialogare, del misterioso Verge di Bruno Ganz ci ricorda il magnifico attore che ci ha lasciati da poco: il suo viso così particolare, che qualcuno ha definito “apparentemente torvo ma solo fino a quando sorride”, è un piccolo grande regalo per noi e una perfetta rappresentazione del personaggio per il cinema, contraltare dello psicopatico protagonista. Protagonista a sua volta interpretato in maniera straordinaria dal miglior Matt Dillon visto da parecchi anni a questa parte, un ruolo che pare perfettamente coincidente con le caratteristiche dell’attore americano. Lui è l’anima del film, è la traslazione compiuta dell’idea che il regista voleva realizzare, tramite una recitazione tra il compassato e il pacatamente terrorizzante.

Il pubblico del Festival ha avuto reazioni diverse: c’è chi è uscito in anticipo inorridito (e non per le scene ma per polemica verso il messaggio implicito) e chi invece alla fine ha regalato una standing ovation e penso che così sarà anche per il pubblico italiano. Tanti non vorranno vedere il film, altri lo osanneranno. Cosa che si ripercuote nel dare un giudizio sintetico anche per me: l’ho trovato inizialmente insopportabile e stavo mollando, poi cammin facendo ho provato maggior interesse e alla fine, pur se sconcertato (perché è UN FILM SCONCERTANTE) ho apprezzato il perfido estro artistico, che indubbiamente ammanta tutte le opere di questo cineasta. Il quale non escludo voglia perfino identificarsi con il mostro che ha creato scrivendo questo eccellente nauseabondo film.






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