La doppia vita di Madeleine Collins (2021)
- michemar

- 11 set
- Tempo di lettura: 6 min

La doppia vita di Madeleine Collins
(Madeleine Collins) Francia, Belgio, Svizzera 2021 dramma/thriller 1h42’
Regia: Antoine Barraud
Sceneggiatura: Antoine Barraud, Héléna Klotz
Fotografia: Gordon Spooner
Montaggio: Anita Roth
Musiche: Romain Trouillet
Scenografia: Katia Wyszkop
Costumi: Claire Dubien
Virginie Efira: Judith Fauvet
Bruno Salomone: Melvil Fauvet
Quim Gutiérrez: Abdel Soriano
Loïse Benguerel: Ninon Soriano
Jacqueline Bisset: Patty
Valérie Donzelli: Madeleine Reynal
Nadav Lapid: Kurt
Thomas Gioria: Joris Fauvet
François Rostain: Francis
Nathalie Boutefeu: Christine
Mona Walravens: Margot
TRAMA: Judith Fauvet vive una doppia vita: in Francia è moglie e madre borghese, in Svizzera è Margot, con un giovane amante e una seconda famiglia. Tra bugie, viaggi e segreti tutto sembra sotto controllo, finché un imprevisto incrina l’equilibrio e le due identità iniziano a confondersi.
VOTO 7

Tra Parigi e Ginevra, tra due case, due amori e due famiglie, una donna costruisce e protegge una doppia vita che lentamente le sfugge di mano: un thriller d’identità che esplora le crepe del quotidiano e la vertigine del segreto. Judith è una donna che è due donne insieme, senza che nessuna delle sue identità sia mai del tutto fittizia, né totalmente vera. Il film non è una storia di bigamia o un semplice thriller familiare: è l’esplorazione di ciò che accade quando l’identità non è più una certezza ma una costruzione narrativa continua.

La prima sequenza, che all’apparenza è completamente staccata dal resto della trama, invece è attinente e lo si può intuire solo nel corso della storia, ma senza alcuna spiegazione né immediata né chiarita in maniera evidente. È quella in cui una donna entra in un elegante e costoso grande magazzino di abbigliamento femminile, nella Svizzera romanda, per provare alcuni capi, ma avverte un malore nel camerino e uscendo, non inquadrata, si verifica una sciagura date le urla della commessa che guarda giù nelle scale. Cambio di scena ed ecco la protagonista Judith Fauvet (Virginie Efira), che in Francia è di professione interprete per conto di un’impresa che lavora per convegni e moglie di Melvil (Bruno Salomone), un direttore d’orchestra. Hanno due figli. Il suo lavoro, per la compagnia Collins, la porta a viaggiare molto. Ma invece di andare in Polonia o in Spagna come lei sostiene, in realtà va in Svizzera, dove conduce una doppia vita con Abdel Soriano (Quim Gutiérrez), marito della sorella defunta Margot (è questo il legame mai chiarito ma intuibile in seguito), con il quale cresce sua nipote Ninon, di cui si prende cura da quando era bambina, tanto che la piccola la chiama mamma, legatissima. Ha anche una carta d’identità svizzera falsa a nome di sua sorella.

Ci si chiede subito come faccia a condurre la doppia vita con tanta sicurezza e indifferenza, nascondendo con grande abilità la vera (quale, poi?) identità ad entrambi i nuclei familiari, inventandosi continuamente impegni e giustificando le lunghe assenze. Solo nello sviluppo della trama ci si accorge che Abdel sappia della doppia conduzione, situazione che da qualche tempo non sopporta più e che lo spinge a trovare una compagna che porta in casa, mettendo in soggezione Judith, ma solo fino ad un certo punto, adattandosi. In ogni caso, sta diventando sempre più difficile per lei mantenere il confine tra le sue due vite. Sia perché suo figlio francese Joris inizia ad avere seri sospetti a causa di una telefonata ascoltata, sia perché, nella vita sociale, incontra, ed è inevitabile, persone che potrebbero accidentalmente rivelare l’anomalia. Difatti, per esempio, una sera i genitori di Judith arrivano inaspettatamente a casa di Abdel e restano sconvolti nel sentire la piccola Ninon chiamarla mamma. L’equilibrio di queste due esistenze comincia a mancare e la donna deve barcamenarsi sempre più in mezzo alle varie situazioni che si presentano.

Al contrario di quello che succede in La donna che visse due volte, dove Kim Novak era due personaggi diversi (Antoine Barraud ne fa un evidente riferimento ed un omaggio quando inquadra di spalle puntando l’attenzione sullo chignon - french twist, tecnicamente - di Judith, che normalmente ha i capelli sciolti), qui è sempre la stessa donna, anche se quando ha il ruolo della moglie del direttore d’orchestra è in un ambiente diverso, più borghese dell’altro. Non è quel tipo di psicosi hitchcockiano che la condiziona, piuttosto è lei che conduce con disinvoltura e consciamente una doppia vita familiare in due ambienti totalmente differenti. Lei è sempre la stessa e sa destreggiarsi abilmente. Però, spesso, è colta da un misterioso malore, da una vertigine, come uno smarrimento. Lì è, forse, la sua anomalia, la sua psicologia malata che le fa sembrare normale il suo comportamento, tanto che quando viene scoperta dai genitori e quando l’amante svizzero decide di troncare, lei trova assurdo che non possa continuare. Cercando ogni volta di ribaltare con esibita meraviglia la situazione incresciosa.

Si viaggia tra il thriller psicologico e il dramma di una donna che non sa rinunciare a nessuno dei suoi poli e vuole continuare in quel modo la vita per non perdere nulla e nessuno. E ad entrambi gli uomini dice – e pare sincera – vi amo, vi amo. Per lei è tutto normale, mentre per lo spettatore è un continuo depistaggio di un film che gioca spudoratamente con il tema del doppio, del camuffamento, della vita in prova. Per lei è normale mentire, bugie seguite da altre bugie, in cui non mancavano fantasia e inventiva fino al punto che il documento d’identità finale, fornito dal falsario di cui si serve abitualmente, pagato con la sua sensualità, lo chiede con il nome del titolo: Madeleine Collins, nome dalla soprano che canta diretta dal marito, cognome dalla società presso cui lavorava come interprete. Lavorava, perché per le sue assenze e le fughe improvvise, quando la barca menzognera comincia a fare acqua, viene licenziata in tronco.

A Madeleine (che è anche un soffice dolcetto francese), visto il crollo del doppio mondo da lei sostenuto, non resta che la fuga precipitosa verso l’ignoto, un nuovo orizzonte, dove poter continuare una nuova (terza) vita e chissà se anche lì serviranno nuove bugie. Perché, evidentemente, mentire è vivere, è sopravvivenza, è vitalità, è sentirsi libera di comporre l’esistenza come meglio si crede, ma sempre amando, volendo bene. Infatti, non ha fatto mai mancare né l’affetto né il sesso, come se fosse la vera ed unica partner dell’uomo che lì, in quel momento, in quel luogo, in quella casa, era il suo uomo. Ma l’aspetto che più fa impressione è la tranquillità delle sue vite, anche telefonando puntualmente, all’uno o all’altro oppure per salutare la bimba svizzera o per fissare l’appuntamento con il marito per l’immobiliarista parigino. Un’efficienza programmata che richiede cervello lucido e organizzazione mentale, mai e poi mai ammettendo, neanche a se stessa, di essere afflitta da una sindrome psicotica. Il suo viso è sempre sorridente, sereno, freneticamente disposta a rispondere lucidamente a chiunque, sempre pensando ai risvolti delle sue parole. Possibile che non se ne sarà mai resa conto? Così parrebbe. Ma in realtà, la bugia per lei è anche una forma di controllo e di potere, di emancipazione femminile. Solo con il falsario Kurt (il noto e premiato Nadav Lapid) è sincera e non gioca al mistero, ed è colui il quale la desidera carnalmente più di tutti. Uomo che si consola solo malinconicamente: quando lei gli chiede ancora una carta d’identità falsa, lui chiosa “Ci sono degli uomini che invitano a cena, io ti invito ad essere chi vuoi”.

Judith / Madeleine / Margot, che importa? Si riceve l’impressione che, in fondo, non cerchi amore, non soffre se la trascurano, è lei piuttosto che dona, pur di avere la certezza di fare la spola tra le due case e comportarsi in modo naturale con i due figli parigini e con la piccola Ninon. La quale, quando si è disabituata a lei e non la vuole più come mamma, rappresenta la botta finale per la sua mente che prima la spinge ad un gesto grave e pericoloso, poi alla fuga e alla conseguente sparizione. Dove nessuno più la cercherà. Ora è Madeleine Collins. Addio.

Se nel complesso il film (che ha dei momenti di rallentamento ma è sempre sul chi vive) è da giudicare positivamente, il voto deve per forza risentire della eccellente performance di Virginie Efira, come sempre d’altronde (I figli degli altri, Benedetta, Niente da perdere, Sybil, Police, Riabbracciare Parigi, Il coraggio di Blanche, a tanto altro). È un’attrice magnetica, che attira l’attenzione (più maschile?) sullo schermo, spesso disinibita, concentrata e centrata sul personaggio, naturale e verace. E bella, molto. Che usa il corpo con disinvoltura e forse per questo viene alcune volte scelta da registi specifici (vedi Verhoeven). La regia di Antoine Barraud ha il pregio di avere idee chiare sul contenuto (da lui peraltro scritto) e l’utilizzo degli attori. Siamo oltre la sufficienza proprio per questi due artisti. Una nota di merito va anche all’attore brillante Quim Gutiérrez che si dimostra bravissimo in un ruolo drammatico.

Riconoscimenti
Venezia 2021
Candidatura miglior film nelle Giornate degli Autori
Lumière 2022
Candidatura per la migliore sceneggiatura
Magritte 2023
Candidatura per il miglior film straniero in coproduzione






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