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La meglio gioventù (2003)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 18 feb 2022
  • Tempo di lettura: 6 min

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La meglio gioventù

Italia 2003 dramma 6h6’


Regia: Marco Tullio Giordana

Sceneggiatura: Sandro Petraglia, Stefano Rulli

Fotografia: Roberto Forza

Montaggio: Roberto Missiroli

Musiche: autori vari

Scenografia: Franco Ceraolo

Costumi: Elisabetta Montaldo


Luigi Lo Cascio: Nicola Carati

Alessio Boni: Matteo Carati

Jasmine Trinca: Giorgia Esposti

Adriana Asti: Adriana Carati

Sonia Bergamasco: Giulia Monfalco

Fabrizio Gifuni: Carlo Tommasi

Maya Sansa: Mirella Utano

Valentina Carnelutti: Francesca Carati

Claudio Gioè: Vitale Micavi

Nila Carnelutti: Francesca Carati a 8 anni

Camilla Filippi: Sara Carati

Andrea Tidona: Angelo Carati

Greta Cavuoti: Sara Carati a 8 anni

Sara Pavoncello: Sara Carati a 5 anni

Lidia Vitale: Giovanna Carati

Giovanni Scifoni: Berto

Francesco La Macchia: Andrea Utano a 7 anni

Paolo Bonanni: Luigi

Riccardo Scamarcio: Andrea Utano da grande


TRAMA: Al centro le vicende di due fratelli, Nicola e Matteo che all'inizio condividono sogni, speranze, letture e amicizie finché l'incontro con Giorgia, una ragazza psichicamente disturbata, non segnerà il destino di entrambi: Nicola deciderà di diventare psichiatra, Matteo di abbandonare gli studi ed entrare in polizia. Accanto a loro i genitori, Angelo e Adriana e due sorelle: Giovanna, entrata giovanissima in magistratura e Francesca, la minore, che sposerà Carlo, il migliore amico di Nicola, destinato a un importante ruolo alla Banca d'Italia e per questo motivo nel mirino dei terroristi durante gli anni di piombo.


Voto 8,5

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Cresciuto culturalmente sotto l’influenza poetica e politica di Pier Paolo Pasolini (il film è diretta emanazione della sua omonima raccolta di poesie pubblicata nel 1954), Marco Tullio Giordana si è ritrovato ispirato come mai. Che l’impegno sociale e politico sia alla base di tutti i suoi lavori lo sappiamo e l’occasione per esprimersi al meglio si cerca sempre, ma solo qualche volta succede che l’ispirazione si accende come un fulmine nel buio del cielo notturno, e tre anni dopo il fiammeggiante I cento passi la luce si è accesa, anzi ha brillato come un lume incandescente che ha illuminato l’intero cinema italiano. Sandro Petraglia e Stefano Rulli hanno scritto una storia lunga come il romanzo della vita, una corposa sceneggiatura che parla di tutti noi, di tutte le sfumature (fatte di ogni tonalità) del colore della società italiana, di ognuno e della moltitudine, della storia personale e familiare che attraversa la Storia Italiana in un arco di tempo lungo 36 anni. In cui avviene di tutto e anche di più, tra spensieratezza giovanile, drammi personali, eventi naturali catastrofici, estremizzazione della politica nazionale, tragedie intime, maturazione.

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Assenze, presenze, ritorni, addii, amori sopiti che diventano realtà. C’è di tutto in questa meravigliosa, enciclopedica ed umanissima sceneggiatura, è un romanzo bellissimo, appassionante, fatto di amicizia, amore e odio, così tanto corale ma anche così preciso e meticoloso nel tratteggiare i tanti personaggi che si assimila come un racconto non solo pasoliniano ma anche degno dei lunghi percorsi di Dostoevskij. Inizialmente conosciamo quattro amici, poi l’intera famiglia di due di essi, i veri protagonisti, Nicola e Matteo e ci sembra già un sufficiente parterre su cui impiantare una storia. Ed invece ecco la giovanissima Giorgia che scombussola i piani, poi Giulia che suona il pianoforte nel fango di Firenze, e poi, e poi, tanti altri, tanto che alla fine sembra che abbiamo trascorso una lunga giornata con delle carissime persone che vorremmo incontrare di nuovo. Ed intanto scorre il fiume degli anni e degli eventi, anche quelli negativi del Paese che arrivano come nodi al pettine della trama, come anche quelli sportivi, con le partite della nazionale di calcio che in Italia hanno il timbro del passo temporale, come un metronomo. I mondiali del 1966 della sconfitta con la Corea, quelli della semifinale con la Germania del 1970, fino a quelli trionfali del 1982, proprio quando Giulia intravede nel Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino la Sara bambina che ha abbandonato per sposare la causa brigatista.

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Il filo conduttore è Nicola, sempre pronto ad aiutare, a capire, a conciliare, a sopportare, a farsi da parte, ma sempre regista nell’ombra delle vicende della famiglia romana Carati, borghesi della classe media che alleva con dignità i figli che raggiungono alti obiettivi di studi e di professione. L’unico davvero irrequieto è Matteo, che sarà capace di condizionare la vita di tutti gli altri. Nicola e la psichiatria, che fortunatamente sta cambiando con l’avvento delle idee innovatrici di Franco Basaglia e che il nostro adotta come metodo di cura verso i suoi pazienti, a cominciare dalla cara Giorgia, con enormi risultati positivi. È lui che resta solitario nella gita che i due fratelli avevano organizzato con Carlo e Vitale per arrivare a Capo Nord, è lui che cerca di tenere incollato il fratello alla famiglia e al mondo, è lui che vuole sposare la donna della sua vita anche se è in carcere, è lui che cresce benissimo la figlia Sara e che alla fine accoglierà Mirella, rimasta sola e madre di Andrea, che presto smetterà di chiamarlo zio.

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Come il Novecento di Bertolucci, è un film diviso in due parti (questo, volendo, anche in quattro), per alcuni un affresco della Storia italiana, ma è anche un album di fotografie. Di quello che eravamo (Così ridevano, secondo Gianni Amelio) e di quello che siamo diventati, passando attraverso quello che potevamo essere e che invece non è stato. Se solo fosse rimasto vivo quello o se solo non fosse stata affascinata dalla rivoluzione quell’altra. Ma la vita è così, piena di eventi inguidabili e servirebbe essere come Nicola, che cerca sempre una soluzione, talvolta meno, come quando si frappone tra la moglie e la porta, quella notte che lei doveva andar via oppure quando mentiva di voler andare a comprare il latte. Nicola siamo noi e a volte siamo Matteo, a volte, e per fortuna, siamo Mirella, che sorride sempre, aperta e solare.

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Rivedendolo dopo qualche anno e con l’occhio più maturo e preparato, ci si rende conto che è uno dei più bei film mai girati in Italia, con una regia attenta e consapevole di ciò che doveva raccontare, avendo dalla propria parte alcuni attori superlativi che poche volte hanno recitato in questa maniera e una musica che accompagna magnificamente. Si assiste alle vicende lunghe più di tre decenni di una famiglia per bene che rappresenta una Italia per bene, con la meglio gioventù – ma, ahimè, anche con una piccola e sparuta peggio gioventù che spaventò il Paese – che seppe onorare gli amori familiari e le amicizie fraterne. Con le alterne fortune che sovrastano la vita di tutte le famiglie di questo mondo. Un’opera bellissima, forse fin troppo bella rispetto ad una realtà che spesso ci lascia l’amaro in bocca. Sei ore in cui, maggiormente chi ha una certa età, sfoglia un album di ricordi, cadenzati dai brani rock che hanno accompagnato la giovane generazione che voleva essere ribelle e anticonformista: A chi (Fausto Leali), House of the Rising Sun (The Animals), Reach out I'll Be There (The Four Tops), Who Wants to Live Forever (Queen), a cui aggiungere quelli classici di Mozart e di Ravel, Ma il vero trai d’union del lungo percorso narrativo è la fisarmonica di Astor Piazzolla con le note di Oblivion che, tornando in diversi momenti apicali, gonfiano il cuore fino a farlo sanguinare di commozione. Un brano che colpisce ogni volta che risuona drammaticamente.

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Che dire degli attori? Con un solo aggettivo li si giudica presto: straordinari! Fabrizio Gifuni, in un ruolo che gli si confà, che lui sa vestire con nobiltà; SoniaBergamasco, abile a passare dalla dolcezza iniziale alla durezza inculcata dalle sue vicissitudini; Alessio Boni, bello e tormentato sino al punto di nessuno riesce ad ammorbidirlo e aiutarlo; JasmineTrinca, allora una rivelazione, quasi l’immagine dell’intero film con quel suo sguardo di traverso, simbolo delle innumerevoli persone che hanno aspettato tanto per essere curati meglio, sempre al centro dell’attenzione di Nicola; Andrea Tidona, che sa rappresentare i padri che abbiamo avuto, che, standoci vicini come angeli custodi della nostra gioventù, hanno cercato di guidarci nella dura affermazione nella vita; la meravigliosa Maya Sansa, il sui sorriso apre sempre lo spiraglio della speranza e di un domani migliore; Adriana Asti, una maestra nel ruolo e sul set, la mamma che soffre in silenzi. Che bravi! Ma soprattutto, sopra tutti, un attore che non ha mai ricevuto le giuste e meritate ricompense e i dovuti riconoscimenti, che in troppe occasioni, col suo modo di recitare spesso in sottrazione, entra in mimesi totale con i personaggi ed è dotato di una tale naturalezza di rappresentazione che sembra non recitare: Luigi Lo Cascio. Definirlo, in questo film, strepitoso è poco: è perfetto. Nel senso che meglio non si può.

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Premiato nella sezione Un Certain Regard a Cannes, in Italia il film di aggiudicò 6 David di Donatello e 7 Nastri d’Argento, compreso tutti gli attori su citati.

Un film che riempie il cuore.


 
 
 

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