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La mia vita con John F. Donovan (2018)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 30 ott 2019
  • Tempo di lettura: 6 min

Aggiornamento: 15 mag 2023


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La mia vita con John F. Donovan

(The Death and Life of John F. Donovan) Canada/UK 2018 dramma 2h3’


Regia: Xavier Dolan

Sceneggiatura: Xavier Dolan, Jacob Tierney

Fotografia: André Turpin

Montaggio: Xavier Dolan, Mathieu Denis

Musiche: Gabriel Yared

Scenografia: Anne Pritchard, Colombe Raby

Costumi: Michele Clapton, Pierre-Yves Gayraud


Kit Harington: John F. Donovan

Natalie Portman: Sam Turner

Ben Schnetzer: Rupert Turner

Jacob Tremblay: Rupert Turner bambino

Susan Sarandon: Grace Donovan

Jared Keeso: James Donovan

Kathy Bates: Barbara Haggermaker

Thandie Newton: Audrey Newhouse

Chris Zylka: Will Jefford Jr.

Amara Karan: miss Kureishi

Sarah Gadon: Liz Jones

Emily Hampshire: Amy Bosworth

Michael Gambon: uomo nel ristorante


TRAMA: Rupert Turner è sempre stato un grande fan di John F. Donovan, star del cinema e della televisione, morto solo e in disgrazia dopo una serie di scandali che lo hanno coinvolto. Dopo la sua morte, Rupert racconta, in un'intervista con la giornalista Audrey Newhouse, la sua amicizia epistolare con l'attore durata cinque anni e iniziata quando aveva undici anni. Attraverso le loro lettere Rupert racconta la sua vita tormentata, tra i compromessi con la fama e pregiudizi che hanno ostacolato la sua breve vita.


Voto 7,5

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Ho amato questo film sin dal primo istante. Nonostante i suoi difetti.

Tre i maschi nella trama, tre i piani temporali della narrazione, tre le donne che si incontrano/scontrano con questi uomini, tre i loro modelli differenti di sofferenza intima.


Il primo dei racconti intrecciati che Xavier Dolan ci narra e con cui inizia il film è un incontro forzato tra Audrey Newhouse, una giornalista troppo impegnata in missioni internazionali per occuparsi di un’intervista con un signor nessuno, e un giovane e sconosciuto scrittore, Rupert Turner, che ha scritto un libro parecchio autobiografico a proposito della sua amicizia epistolare che ebbe da ragazzino con un famoso divo della TV, John F. Donovan. È un incontro che la donna accetta con riluttanza ritenendolo per lei una perdita di tempo, ma gli ordini perentori della redazione sono quelli di scrivere un articolo sul giovanotto e parlare del suo romanzo. Rupert avverte l’iniziale ostilità istintiva dell’interlocutrice ma con pazienza e soprattutto con la sincerità che ha percorso la sua vita ne conquista la fiducia e l’attenzione. La loro lunga conversazione farà da filo conduttore per tutta la durata del film e a loro si tornerà a più riprese per il racconto e le rivelazioni contenute nel libro raccontate da Rupert, mentre si svilupperanno gli avvenimenti degli anni passati.

Ecco quindi il primo maschio, il primo piano temporale, la prima donna che appunto inizialmente non accoglie bene l’altro benché poi per fortuna si “scioglie” e quasi si commuove e riesce a ben percepire la solitudine e le sofferenze intime dell’animo dello scrittore, sofferenze che si porta dietro sin dall’età di 10 anni.

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Rupert bambino (secondo maschietto, ma è sempre lui, lo scrittore), scolaro attento e molto intelligente in una scuola londinese nel Borgo di Harrow, si è trasferito in Inghilterra con la mamma Sam dopo che suo padre li ha lasciati soli. Il loro rapporto non è facile né facilitato da una mamma troppo distratta dalle sue prerogative: lui è molto sensibile e patisce per il bullismo che sopporta in classe mentre la madre cerca senza fortuna di sfondare nella carriera di attrice e tra preoccupazioni e fallimenti trascura i bisogni affettivi del figlio, che soffre in silenzio. È una difficoltosa relazione familiare che isola sempre più il piccolo Rupert, il quale quasi per scherzo scrive una lettera, con inchiostro verde, al suo mito, l’attore John F. Donovan, all’apice della carriera per via di una serie televisiva di supereroi. Insperatamente il piccolo invece riceve risposta, che conserva segretamente come tutte le altre lettere seguite, iniziando così un lungo rapporto epistolare che durerà negli anni. Nel frattempo, anche lui sostiene provini per recitare, come ha sempre sognato.

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Il divo John F. Donovan vive una difficile vita di celeberrimo attore, acclamato ad ogni uscita, fintamente felice con una donna che lo accompagna nelle uscite pubbliche per mascherare la sua omosessualità, così come quella dello scrittore Rupert ex-bambino prodigio. È proprio John quello messo peggio degli altri personaggi: oltre a nascondere le sue relazioni, ha anche lui un complicato rapporto con la madre Grace, donna esuberante ed eccentrica che ama i figli ma che si rivela evanescente e inconsistente, che non vede aldilà del proprio naso, che non capirà mai suo figlio, e se mai realizzerà le necessità di John le succederà quando ormai sarà troppo tardi.

Rupert bambino, Rupert scrittore, John attore: tre uomini con tre donne che non sono riuscite in tempo a saper capire la persona con cui avevano a che fare. La mamma del primo, Sam, se n’è accorta solo quando esplode lo scandalo; la seconda, la giornalista Audrey, cambia atteggiamento quasi al termine dell’intervista, dopo aver trattato lungamente con troppa sufficienza il giovane; la mamma dell’attore Grace non è mai stata all’altezza di comprendere il figlio, se non dopo esserselo fatto sfuggire dalla vita.

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Innegabilmente il mio pensiero è andato al meraviglioso È solo la fine del mondo, opera in cui il protagonista Louis-Jean non riesce in tutta la giornata trascorsa con la famiglia e spiegare che ha poco da vivere perché l’AIDS lo sta uccidendo e riparte senza essere stato mai ascoltato e compreso. Erano tutti intenti a litigare e a discutere egoisticamente dei propri affari personali. Come qui, ove ognuno bada alla punta dei suoi piedi senza mai alzare lo sguardo e “vedere” cosa vuole dire Rupert oppure quale è l’estremo bisogno di John. Isolati e soli. Abbandonati e solitari. Mi pare inevitabile andare con il pensiero alla vita privata del giovane e geniale regista canadese e del suo tema preferito che ritorna in tutti i film: l’omosessualità conclamata ma vissuta con difficoltà, tra gente che prende in giro – come il bullo della classe di Rupert – e gente che non ascolta. Tra le battaglie intime e quelle esterne, tra gli amori veri della vita privata e quelli raccontati nei suoi bellissimi e sentiti film. Perché da questo film, così bistrattato dalla critica di tutto il mondo, così criticato (giustamente) per gli aspetti tecnici, traspare solo sincerità, soltanto lealtà. Tutta la trasparenza di Xavier Dolan è palese in queste due ore, dove a furia di mettersi totalmente in gioco ha purtroppo fatto un po’ di confusione. E non intrecciando i tre piani temporali o mescolando i personaggi, piuttosto perdendosi in alcune sequenze alquanto artificiose, ma rimediando nello stesso tempo con lampi di sincero melodramma che regalano attimi emozionanti. Bellissime per esempio le sequenze in cui il bambino si sfoga tra le lacrime davanti alla mamma esterrefatta, o quando solo per strada John si ritrova abbandonato anche dall’ultimo appiglio di amicizia e di conforto che aveva cercato, in cui dopo aver acceso l’ennesima sigaretta sparisce. Si regalerà un ultimo bagno nella casa della madre e poi nessuno lo vedrà più. A John la produzione ha tolto anche il ruolo promesso, la manager si è licenziata e nessuno lo aspetta. La sua vita è tutta racchiusa nelle lettere inviate all’unico essere al mondo che lo ascoltava: il piccolo Rupert. Quella manager, Barbara Haggermaker (Kathy Bates), solo a posteriori afferma in un’intervista: “Il mio più grande fallimento non era stato lasciare John, era stato non conoscerlo.” Considerazioni che fanno ancor più male. Dopo.

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Tutto l’amore, la sincerità e la confusione travolgente e piena di sentimenti che Xavier Dolan ha inserito nel film, al contrario di tanta gente, mi hanno conquistato. Ha ripreso i suoi attori con primissimi piani, così come accadde con È solo la fine del mondo: con l’obiettivo della macchina da presa tanto vicino al viso è bastato solo qualche minimo movimento dei muscoli facciali degli attori per comunicare senza parole. Sta diventando un suo marchio di fabbrica. Bravissimi a dimostrarlo soprattutto il protagonista Kit Harington – attore che non avevo mai visto all’opera e che mi ha notevolmente impressionato - eccellente in ogni sequenza; come anche la brava e duttile Thandie Newton. Ma tutti gli attori hanno saputo dare il massimo: la sempre valida Natalie Portman, il sorprendente Ben Schnetzer (non si rassomiglia a Xavier, almeno un po’?), l’estrosa Susan Sarandon, la dolcissima Sarah Gadon (con una breve apparizione), il cameo di Michael Gambon. Capitolo a parte per il piccolo Jacob Tremblay, qui al suo decimo film a soli 12 anni, per il quale recitare è divenuto così facile da far sfigurare chiunque gli giri intorno: un vero enfant prodige uguale a Xavier! Nell’occasione si permette perfino (mi è parso di notare) di “giocare” con le sue battute, interpretate con tale nonchalance da dare l’impressione di esibirsi con sufficienza. Chissà quale carriera lo aspetta!

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Questa settima regia dell’artista québécois ha avuto una difficoltosa vita, un parto sofferto, una sceneggiatura a quanto si racconta scritta e riscritta più volte, attori importanti ingaggiati ma tagliati in fase di montaggio (vedi la sparizione di Jessica Chastain, cancellata in quella sede). Tutto ciò seguito da una uscita per nulla apprezzata: IndieWire ha etichettato il film come "il peggiore" della carriera di Dolan, oltre ad aver definito la sceneggiatura "da soap-opera" e "mal costruita". The Guardian ha dato al film un punteggio di una stella su cinque, giudicandolo un "pasticcio confuso". The Hollywood Reporter ha descritto il cast come "impressionante" ma ha bollato il film come "uno psicodramma immaturo, impacciato e troppo lungo". Critiche severissime che non condivido, anzi il commento musicale contestato l’ho trovato adeguato ed efficace con brani rock di grande effetto perché piazzati ad arte nei momenti giusti: Rolling In the Deep (Adele), Stand By Me (Florence + The Machine), Sulk (TR/ST) e soprattutto la bellissima Bitter Sweet Symphony (The Verve). Ok, non è certo il miglior film di Xavier Dolan, ma ribadisco il mio concetto iniziale: ho amato questo film sin dal primo istante. Nonostante i suoi difetti. Perché va almeno apprezzato lo sfogo liberatorio, perché è dal primo film che Dolan parla “di” e a “se” stesso.


Ricordandomi di quella vecchia lettera che Xavier, bambino di 8 anni, scrisse con trasporto al suo divo adorato, Leonardo DiCaprio. Non è autobiografico, quindi, questo bellissimo film?

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Ciao Leonardo, il mio nome è Xavier Dolan-Tadros, io vado a scuola, io amo la scuola. Ho 8 anni. Il 20 marzo ne avrò 9. Sono un tuo fan. Ho visto 5 volte Titanic. Tu reciti davvero bene. Sei un grande attore e ti ammiro. Anch’io sono un attore. Ho recitato in alcuni spot commerciali per una nota catena di farmacie e ho avuto buoni ruoli in quattro film francesi. Spero che potrò recitare almeno una volta in uno dei tuoi film. So che verrai un giorno a Montreal. Montreal è molto popolare come location per il cinema. L’anno scorso abbiamo avuto 100 film che sono stati girati qui. Proverò ad incontrarti allora. Quando verrai a Montreal per girare un film io sicuramente farò le audizioni nel caso che tu abbia bisogno di un ragazzo per il cast. Caro Leonardo, spero sinceramente che risponderai alla mia lettera mandandomi una tua foto. (segue indirizzo mittente)


 
 
 

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