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La proprietà non è più un furto (1973)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 21 feb 2020
  • Tempo di lettura: 2 min

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La proprietà non è più un furto Italia/Francia 1973 dramma 2h6’


Regia: Elio Petri Sceneggiatura: Elio Petri, Ugo Pirro Fotografia: Luigi Kuveiller Montaggio: Ruggero Mastroianni Musiche: Ennio Morricone Scenografia: Gianni Polidori Costumi: Gianni Polidori


Flavio Bucci: Total Ugo Tognazzi: il macellaio Salvo Randone: padre di Total Mario Scaccia: Albertone Daria Nicolodi: Anita Ettore Garofolo: Bocio Julien Guiomar: direttore di banca Jacques Herlin: impiegato Gigi Proietti: Paco Gino Milli: Zagané Orazio Orlando: Pirelli Cecilia Polizzi: Mafalda


TRAMA: Total, giovane impiegato di banca, è allergico al denaro, gli fa schifo toccarlo e disprezza chi lo possiede. Convinto che il mondo sia fatto di ladri, quelli che si professano tali e quelli che si arricchiscono alle spalle degli altri, crede di aver individuato un appartenente alla seconda categoria in un macellaio cliente della banca per cui lavora. Decide di prenderlo di mira.


Voto 7



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La cosiddetta “trilogia della nevrosi” di Elio Petri si completa, dopo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1972), con questo film del 1973, sempre provocatorio e polemico, forse anche più grottesco degli altri due ma mai, sia chiaro, come Todo modo, che rimane il più incisivo e graffiante dell'intera opera del regista. Film che dovrebbe essere riportato in primo piano e discusso ancora oggi. Petri continua a sfidare il costume borghese con storie al limite del reale, provocando polemiche con l’ideologia di sinistra e si inventa, assieme al sodale Ugo Pirro, una figura di cassiere di banca che odia il danaro (!) tanto che il trittico nevrotico di cui prima affronta dopo il potere e il lavoro anche l’aspetto finanziario-monetario dell’Italia che in quegli anni va crescendo nell’economia mondiale.



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L’espansione economica e il liberismo crescente Petri li combatte con l’ideologia comunista che in questo film assume addirittura la dizione parossistica e chiaramente sarcastica di “marxista-mandrakista” (così si autodefinisce il protagonista, un sorprendente Flavio Bucci) per combattere la società dei consumi. Total (pensate un po’ come hanno immaginato di chiamare il personaggio) odia il danaro, oltre a chi ne possiede tanto e che fa affari arricchendosi continuamente, legalmente o no. Nel senso che considera i clienti della banca ove lavora come ladri autorizzati e che quindi vanno a loro volta derubati.



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È un Elio Petri arrabbiato, perfino illividito, che scrive un film come apologo grottesco sull’essere e sull’avere, sulla proprietà e la trasgressione: facile immaginare quali polemiche e discussioni poté causare un’opera del genere, arrivando ad essere perfino sequestrata per offese al pudore e oscenità, a dimostrazione che in fondo il regista aveva punto sul vivo l’anima conservatrice che aleggiava nel Paese in quegli anni e che alimentò le vivaci polemiche della sinistra politica.



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Grande cast di grandi attori: dopo i due film con Volonté ecco che arriva Ugo Tognazzi, efficacemente coadiuvato da attori esperti di matrice teatrale (vedi Salvo Randone, Mario Scaccia, sempre presenti nei film importanti di quegli anni, senza dimenticare il giovane Flavio Bucci che cominciava ad affermarsi.




 
 
 

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