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La sposa promessa - Fill the Void (2012)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 6 feb 2019
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 9 feb 2020


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La sposa promessa - Fill the Void

(Lemale et ha'halal) Israele 2012 dramma 1h30'


Regia: Rama Burshtein Sceneggiatura: Rama Burshtein Fotografia: Asaf Sudri Montaggio: Sharon Elovic Musiche: Yitzhak Azulay Scenografia: Uri Aminov Costumi: Hani Gurevitch


Hadas Yaron: Shira Mendelman Hila Feldman: Frieda Irit Sheleg: Rivka Mendelman Yiftach Klein: Yochay Mendelman Razia Israeli: zia Hanna Renana Raz: Esther Mendelman Ido Samuel: Yossi Mendelman Yael Tal: Shiffi


TRAMA: Shira proviene da una famiglia di ebrei osservanti, ha 19 anni e si sta preparando alle nozze con un promettente allievo di una scuola religiosa quando sua sorella muore nel dare alla luce il suo primo figlio. Devastata dal dolore, la madre di Shira si preoccupa che il genero Yochay, rimasto ormai da solo, trovi un'altra moglie e porti via lontano da lei il nipotino. Per evitare che ciò accada, si convince che Shira debba sposare Yochay. Di fronte ai pareri contrastanti di amici e familiari, Shira è combattuta tra i suoi desideri e il senso di dovere nei confronti della famiglia.


Voto 8


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Non è certo facile parlare di un film che racconta di una storia collocata nell’ambiente ebraico, anzi totalmente nell’ambiente religioso ultra-ortodosso di Tel Aviv. E’ difficile perché bisogna capirne pienamente la mentalità e le tradizioni, altrimenti, per chi di altre religioni o atei, pare di assistere a scene di esseri provenienti da altri pianeti. Quindi cerco di muovermi con piede felpato e mani di velluto, è facile scrivere sciocchezze altrimenti.


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Il film è un’opera piccola perché non ha respiro internazionale, ma ha un notevole impatto emotivo e assorbe completamente l’attenzione dello spettatore. Ogni scena, ogni inquadratura pare emanare gli odori di quelle case, piene di mobili, soprammobili, tessuti, tende, velluti, vestiti pesanti: raramente nei film si vedono case così densamente arredate e con poco spazio calpestabile. Si notano solo persone vestite come previsto dall’osservanza più stretta da questa religione, che si comportano e prendono scelte coerenti al credo praticato. Gente osservante a pieno. Ed è a causa di questa scelta di vita che la trama si dipana in una certa maniera: in un altro ambiente, religioso o no, la storia avrebbe potuto prendere pieghe completamente diverse, i protagonisti avrebbero ragionato diversamente. La giovane regista qui all’esordio non ha timore di affrontare e raccontare una storia difficile da far capire al resto del mondo, ma mantiene la barra dritta e va avanti nella narrazione senza tentennamenti.


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Tutta la vita dei personaggi, e quindi dei veri osservanti di questo integralismo religioso, è condizionata fortemente dalle regole della Thora, gli uomini vestiti di nero con treccine e copricapo (shtreimel) di ordinanza, le donne sposate col capo coperto da pesanti foulard damascati. Secondo tradizione ogni piccola difficoltà viene presentata al rabbino, tutte le novità della comunità viene raccontata al rabbino, ogni bisogno dei singoli verrà soddisfatto dal rabbino. Insomma nulla deve uscire dai binari dettati dalla religione, compreso il fatto che le donne sono tenute da parte nelle decisioni importanti che prendono gli uomini.

Anche prendere marito per una ragazza ebraica non è solo un argomento strettamente personale, in quanto le persone più care e vicine alla futura sposa danno il loro contributo alla scelta e in alcuni casi è necessario l’intervento ancora del rabbino anziano, che distribuirà anche in questo caso consigli o ricorderà le regole ferree scritte da secoli. Tutto ruota appunto attorno ad una tenace ragazza diciannovenne (Shira) che ha scelto, anche sotto consiglio di famiglia, come futuro marito un giovanotto che già studia da rabbino; lei ne è felice e pensa che tutto andrà per il meglio. Nel frattempo una sorella più anziana e a fine gravidanza muore a causa di un parto problematico. E quindi si crea un vuoto in famiglia, un vuoto da riempire. Ecco il significato del titolo inglese del film “Fill the void”, riempi il vuoto. Affannosa e polemica diventa la disputa tra i familiari per dare una mamma al piccolo nato ed una nuova moglie al vedovo. La cercano ma non trovano mai quella adatta o che vada bene al vedovo Yohai : potrebbe essere allora Shira?


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Fill the void, riempi il vuoto, il posto lasciato vacante da tua sorella. Ma questo vorrebbe dire rinunciare ai proprio sogni. La abile e giovane esordiente Rama Burshtein,  regista e sceneggiatrice, sta addosso a Hadas Yaron (Shira), la inquadra da tutte le angolazioni, le ruba i sospiri, i sorrisi, le smorfie. Non la molla mai e la fa apparire forse nel 95 per cento della pellicola, mostrandola in tutta la sua grazia giovanile. Noi spettatori, davanti ai suoi primissimi piani, viviamo con lei i suoi dubbi e i suoi sogni, ne sentiamo il respiro. Bravissima. E premiata a Venezia con la Coppa Volpi.

La regista bisognerà seguirla, perché anche se questo film non è certo un capolavoro è pur sempre un bell’esordio ed ha il pregio di farci capire molto meglio di tanti altri film quel mondo ebraico ortodosso che non conosciamo. Ed è fatto con cura.



 
 
 

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