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La testimonianza (2017)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 16 ott 2023
  • Tempo di lettura: 6 min

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La testimonianza

(Ha'edut - The Testament) Israele/Austria 2017 dramma 1h28’


Regia: Amichai Greenberg

Sceneggiatura: Amichai Greenberg

Fotografia: Moshe Mishali

Montaggio: Gilad Inbar

Musiche: Walter W. Cikan, Marnix Veenenbos

Scenografia: Tamar Gadish

Costumi: Sarit Sharara


Ori Pfeffer: dr. Yoel Halberstam

Rivka Gur: Fania

Hagit Dasberg: Rina

Ori Yaniv: Miki

Orna Rothberg: Miriam

Daniel Adari: Yonatan

Emanuel Cohn: archivista

Iréna Flury: Silvie

Michael Fuith: sindaco


TRAMA: Yoel, un quarantacinquenne esperto di ricerche sull'Olocausto, ha trascorso più di quindici anni a studiare con diligenza i metodi nazisti di annientamento degli ebrei in Austria e Ungheria. Nel corso delle sue ricerche, scopre quasi per caso alcuni documenti segreti che indicano la falsa identità ebraica sotto cui vive sua madre. Certo che si tratti di un errore, sarà disposto a rischiare tutto per scoprire la verità sull'identità della donna.


Voto 7

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C’è un termine preciso che avvia il film di Amichai Greenberg e che sentiamo ripetere più volte dal protagonista: la verità. Perché è quella che cerca con tutte le sue forze.

Il dottor Yoel Halberstam, uno storico, un ricercatore esperto sull'Olocausto, è nel bel mezzo di una battaglia legale con potenti lobby in Austria in un luogo di confine tra Ungheria e Austria riguardante un brutale massacro di ebrei che è accaduto verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel villaggio di Lensdorf. Un’influente famiglia di industriali. sul cui terreno era avvenuta la strage, è in procinto di costruire un progetto immobiliare sullo stesso terreno e l’uomo sospetta che il loro obiettivo sia quello di seppellire la vicenda per sempre e quindi lui deve fare in fretta per dimostrare la sua tesi, ma ha difficoltà a trovare le prove conclusive che fermerebbero il progetto. La verità, quindi. Come ha modo di dire in un’intervista con la televisione locale: “Sono uno storico e come ogni scienziato che si rispetti ricerca la verità: un geologo cerca i reperti di antiche civiltà, io invece cerco i fatti concreti. I nemici dell'archeologo sono i molteplici strati di terra, io lotto contro il tempo che nasconde i fatti. […] Gli esseri umani hanno la tendenza a dimenticare e il mio ruolo, come ebreo credente, è tenere viva la memoria. […] Sì, è vero, i miei genitori sono sopravvissuti all'Olocausto ma non c'entra. Io non credo nella narrativa, credo solo nei fatti che portano alla scoperta della verità.” “La sua verità.” “No, non la mia, non esiste la mia verità, se la verità è mia non è una verità, non esiste la mia verità o la sua: la verità è assoluta, non può essere che assoluta. Bisogna solo scegliere se accettarla oppure negarla.”

Ecco, più chiaro di così non poteva essere introdotto il film. Che ha per tema centrale la ricerca e la messa alla luce della scoperta di una fossa comune con dentro circa duecento ebrei massacrati dai tedeschi con la compiacenza degli abitanti. Yoel ne è convinto ed è determinato a continuare l’indagine anche a costo di andare contro i limiti imposti dalla sua referente Rina nell’ambito universitario e del museo ebraico del posto, e contro gli ostacoli burocratici e politici, oltre quelli posti dagli imprenditori che vogliono iniziare quanto prima a costruire il complesso edilizio previsto. L’uomo è mite, calmo e riflessivo, ma estremamente convinto della giustezza del suo compito, maggiormente perché è confortato dalle interviste che fa agli anziani testimoni dell’accaduto. Si rende anche conto, però, che alcuni non vogliono parlare, per dolore o vergogna, ma la testimonianza determinante arriva da un vecchio che, sopravvissuto al campo di concentramento, ha conservato negli anni un documento importantissimo, un libricino, confezionato alla meglio con uno spago, in cui sono raccolte le preghiere che lui e gli altri costretti recitavano tutte le sere. Fogli che, alla fine delle tribolazioni delle ricerche e poco prima di arrendersi, si svelano come la dimostrazione dell’accaduto e del luogo dove scavare e trovare i resti delle povere vittime dei nazisti. Ecco la spiegazione del titolo originale: il testamento è proprio quel libricino delle preghiere.

Ma la testardaggine di Yoel non riguarda solo lo scopo palese ed ufficiale della sua ricerca: tra le testimonianze registrate e raccolte di persona c’è quella di un’altra anziana ebrea che gli mostra la vecchissima fotografia di un matrimonio facendo il nome di sua madre ma riferendosi ad una cristiana che aveva sposato un uomo ebreo. Come? Sua madre non è ebrea? Non è possibile, si starà confondendo, come ha potuto notare nelle tante persone interpellate, ormai molto vecchie e con la memoria che vacilla. Si accorge allora che quella maledetta indagine serve anche a chiarire il passato della madre e le due inchieste diventano due binari paralleli che devono portare alla stessa stazione della verità. Ma se quella storia udita è fedele alla realtà, lui, credente convinto, severissimo con il figlio prossimo al bar mitzvah ed osservante, lui non è ebreo, ma un “goi”. Più che mai deve arrivare alla verità, anche, se necessario, affrontando la madre rischiando di farla soffrire nel confessare il suo passato e nonostante la forte opposizione della sorella. No, non può vivere in questo atroce dubbio e quindi avanti tutta e contro tutti con la ricerca della verità: la storia della fossa comune deve portare anche alle origini di sua madre. Non sarà facile né praticamente né per le sue convinzioni religiose, fin quando non arriverà la confessione di un uomo anziano e ricchissimo che lo porterà molto vicino alla soluzione.

In termini cinematografici, i luoghi delle riprese servono come metafore per eventi senza speranza. Si vedono scaffali pieni e vuoti delle biblioteche, stanze di lavoro sotterranee senza finestre e sbarrate, dopo l'inizio del film c'è musica solo dopo circa un quarto d’ora, spesso si sentono solo silenzi e muti respiri per minuti. I conflitti con i dipendenti e le visite al rabbino sono inseriti nel film come un intermezzo. Penoso anche l'episodio con il figlio, che si prepara al bar mitzvah e mette a dura prova la conoscenza di Yoel della sua religione. I contributi occasionali alle interviste con i sopravvissuti mostrano sempre la disperazione dei prigionieri nel campo: “Chi mi sposerà avrà le mie scarpe di cuoio”. Nonostante molte fonti e dettagli, lui sembra non essere in grado di andare avanti quando non coincidono. Le autorità austriache gli concedono l’ultima settimana per fornire le prove dei massacri ed un numero lo salverà: 1.247, che sono i passi a nord della chiesa dalla fossa tanto cercata. Quella che conduce Halberstam è in pratica una doppia indagine, una personale ed una scientifica, intrappolato tra muri di silenzio: da un lato la negazione dell'Olocausto da parte degli abitanti della cittadina e dall'altro il silenzio di sua madre riguardo al suo passato. Per giunta sul punto di rovinare la sua vita personale e professionale.

Il film è lento, dal passo compassato, dati il dibattito interno e i pochi che lo sostengono, le riflessioni intime. Come il protagonista, silenzioso attorniato dal silenzio di chi per lui dovrebbe invece parlare, separato dalla moglie, vive con la madre reticente, per nulla confortato dal rabbino. Cerca sponda ma si ritrova solo in questa avventura più grande di lui, ma la sua tenacia continua a spingerlo anche contro l’apparente insuccesso. Per rendere efficace questo quadro, nell’ambito di una eccellente fotografia, a volte vivida, altre cupa, ci voleva un attore capace di esprimere il non espresso, di dire parole non pronunciate, di esternare sentimenti con le minime espressioni e gli sguardi furtivi ma indagatori e sotto questo profilo Ori Pfeffer si dimostra altamente performante. Nascosto per quattro quinti del film da una lunga barba nera, con i riccioli che scendono davanti alle orecchie, dal kippāh che si toglie solo quando apprende le sorprendenti notizie della madre, dall’espressione burbera e scostante, dietro a tutto questo c’è perfino un bell’uomo che si scopre solo alla fine, quando si libera da ciò che ritiene in quel momento un inutile e fuori luogo. Ci sono buoni attori intorno, ci sono le malinconiche facce dei sopravvissuti, le rughe di chi ha vissuto la banalità del Male, le mani tremolanti che mostrano foto ingrigite dal tempo e dai ricordi che non vanno via, ma questo attore è davvero bravo a soffrire nel suo non facile personaggio, osando né troppo né poco quello che serviva.

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Ottima la regia di Amichai Greenberg che così debutta dopo aver lavorato come sceneggiatore, dimostrando di saper usare la camera da presa molto bene. La trama è di fantasia ma prende sicuramente spunto da un fatto molto simile avvenuto nello stesso periodo del tempo del film: il massacro di Rechnitz, dove, appunto 180 prigionieri, condannati ai lavori forzati dai nazisti, furono trucidati nella fase finale della guerra dopo essere stati utilizzati per la costruzione del cosiddetto Muro sud-orientale di Hitler. Altri 16 furono prima obbligati a scavare quella tomba disumana e poi furono fucilati e sepolti in un’altra fossa. Questa piccola fu cercata e trovata per volontà del Ministero Federale degli Interni austriaco ma quella più grande non è mai stata più rintracciata.

Almeno, questo film serve a fare giustizia di una prova mai provata.

In Memoria.

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Riconoscimenti

2017 - Haifa International Film Festival

Miglior film

2018 - Festival Internazionale del Cinema di Pechino

Miglior sceneggiatura

Candidatura miglior film


 
 
 

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