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La voltapagine (2006)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 13 mag 2020
  • Tempo di lettura: 6 min

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La voltapagine

(La tourneuse de pages) Francia 2006 dramma 1h25’


Regia: Denis Dercourt

Sceneggiatura: Denis Dercourt, Jacques Sotty

Fotografia: Jérôme Peyrebrune

Montaggio: François Gédigier

Musiche: Jérôme Lemonnier

Scenografia: Antoine Platteau

Costumi: Antoine Platteau


Catherine Frot: Ariane Fouchécourt

Déborah François: Mélanie Prouvost

Pascal Greggory: Jean Fouchécourt

Xavier De Guillebon: Laurent

Christine Citti: Madame Prouvost

Tristan: Antoine Martynciow

Julie Richalet: Mélanie bambina


TRAMA: La dodicenne Mélanie sembra ben predisposta verso il pianoforte e tenta il concorso di ammissione al conservatorio, ma fallisce. Profondamente delusa dall'atteggiamento disinvolto del presidente di commissione, una celebre pianista, decide di non suonare più. Una decina di anni dopo, Mélanie finisce a lavorare in uno studio legale, guidato proprio dal marito della donna che ha cambiato il corso della sua vita.


Voto 7,5


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La vendetta. Fredda, a distanza di tempo. Oppure istantanea, calda e furibonda. Studiata o istintiva. Ma sempre vendetta, a volte per un fragile motivo, altre per uno sgarbo grave o peggio ancora per un torto insopportabile e ingiusto. Fatto sta che ognuno, quando scatta la molla, che in realtà è una trappola per la mente accecata dal risentimento, ognuno cerca di portare a termine un progetto che bilanci l’oltraggio subito, e perché no che vada anche oltre il pareggiamento, per la pura soddisfazione di aver impartito una lezione. Allargando la veduta sul piano sociale e politico, quella rivalsa assume contorni più importanti perché diventano parte della Storia: le rivolte, le ribellioni, addirittura le rivoluzioni – termine certamente troppo grosso rispetto a questo contesto – sono anch’esse le vendette che un popolo cerca nei confronti del ceto che lo ha sottomesso e abusato, a volte tiranneggiato. Più semplicemente succede che un individuo voglia restituire il torto per un impulso emotivo, talvolta anche per una gravissima offesa, di cui a volte lo stesso offensore non ne coglie la portata, ma è sempre l’offeso quello che soppesa l’accaduto e prima o poi escogita il metodo, raffinato o rozzo, per realizzare la vendetta. Come nel caso di questo film.


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Mélanie è una dodicenne che ama la musica e ha talento per il pianoforte, strumento su cui si allena con costanza e dedizione, sperando di poter un giorno entrare con merito nel conservatorio di Parigi. È il suo sogno e dei suoi genitori, che per tradizione di famiglia hanno una macelleria. Quindi gente modesta ed educata, che spera di vedere realizzato il desiderio della loro ragazzina. Quando arriva il giorno dell’esame per l’ammissione lei è tesa ma sicura e difatti l’esibizione inizia in maniera ideale: la giuria la osserva con l’attesa severità ma soddisfatta. Almeno per una buona parte della prova, cioè fino a quando, nel bel mezzo dell’esibizione, entra una signora nella sala dell’audizione per richiedere un autografo alla pianista più importante della giuria, la famosa Ariane Fouchécourt, la quale smette di dedicare la giusta attenzione all’ascolto. Mélanie se ne accorge e si distrae, perde la concentrazione e il ritmo, la mente si destabilizza, le mani non seguono più il movimento che tanto aveva provato. La prova fallisce, l’ammissione al conservatorio è respinta. A casa chiude a chiave il pianoforte e non lo toccherà mai più.


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Il regista Denis Dercourt ci fa fare un salto temporale e senza alcun sostegno narrativo ci catapulta una decina di anni dopo, quando vediamo per strada una bella ragazza che suona il campanello allo studio di un importante avvocato la cui segretaria l’ha convocata per uno stage. È l’intuito dello spettatore che percepisce la nuova situazione: quella giovane è infatti Mélanie, che ha accettato l’incarico perché – lo scopriamo a tempo debito – l’avvocato Jean Fouchécourt è proprio il marito di quella pianista che aveva mandato in fumo i suoi sogni artistici. Per lei, fare un passo alla volta è il metodo più insospettabile per avvicinarsi e poi addirittura entrare nella casa (una lussuosa, enorme villa nella campagna parigina) della coppia, dove sorge la possibilità per la ragazza di diventare la babysitter per ragazzino di casa. È facilmente intuibile che Mélanie vuole entrare nell’ambito della famiglia in punta di piedi ma con una determinatezza solo apparentemente innocente. Molto presto conquista la completa stima della famiglia: il suo sorriso è disarmante, la precisione del suo servizio è ineccepibile, la delicatezza dei gesti è ammirevole, la disponibilità ad ogni richiesta della coppia è molto apprezzata. Nasce perfino una certa complicità tra la giovane e il figlio Tristan fatta di giochi e scherzi (a volte pesanti), ma è nulla in confronto al particolare rapporto che si instaura tra Mélanie e Ariane, la valente pianista padrona di casa. La prima conquista la totale fiducia della seconda, divenendone la confidente e la affidabile voltapagine sia durante le prove in casa che quelle nel trio di cui la signora fa parte. Addirittura la porta con sé anche nei concerti ufficiali, trovando il supporto psicologico necessario per la sua stabilità mentale. Ben presto questa relazione diventa morbosa: la ragazza circuisce la donna, la tenta, la seduce furbamente con piccoli gesti e sguardi segreti. La vendetta? È in arrivo.


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Pareva un film drammatico ed invece si rivela e si dipana come un thriller profondamente psicologico, come poche volte si è visto. Denis Dercourt usa la intelligente accortezza di asciugare i dialoghi al minimo indispensabile, frasi scarne, intervallate da silenzi e occhiate, inquadrature maliziose, gesti semplici e lenti, acuendo la strana atmosfera che si sta creando. Scruta con la macchina da presa il giovane ma ben sviluppato corpo di Mélanie, senza disdegnare l’apprezzamento dell’obiettivo in pose rilassate nella sua camera o in squarci del camerino di una boutique.

Due sequenze sono sufficientemente esplicative.

Ariane si allena al pianoforte a coda con un brano impegnativo mentre Mélanie le è al fianco in piedi per girare le pagine; Ariane è al centro dell’inquadratura, Mélanie è alla sua sinistra e la sua immagine si riflette sul lucido coperchio sollevato, specularmente; osservandole sembrano una di sopra all’altra, come in un moto di avvicinamento e di approccio progressivo; l’una si impone sull’altra, l’altra si scopre protetta e più forte perché confortata. Mélanie conosce bene la musica e sa leggerla, gira la pagina a tempo perfetto, Ariane è rilassata e nello stesso tempo impegnata a suonare al massimo delle potenzialità, cosa che si replicherà anche nei concerti negli studi della radio.


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La signora ha deciso di regalare alla giovane un abito elegante da concerto e le fa provare un bellissimo modello nero e scollato che le esalta le forme; Mélanie entra nel camerino per provarlo ma non chiude volutamente del tutto la tendina che rimane scostata; è nuda, si intravede il bianco del seno scoperto: Ariane non sa distogliere lo sguardo ed è attirata da quel corpo. Ormai ha capito di aver ceduto e sa di essere attratta da quella ragazza arrivata nella sua vita da chissà dove.


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Il lavoro del regista è soprattutto sul piano psicologico, con un crescendo non spasmodico ma sapientemente centellinato, con lo scopo di portare progressivamente lo spettatore ad essere conscio della particolarità della situazione: da un lato noi sappiamo chi è la giovane e perché è in quella villa, dall’altro osserviamo la padrona di casa del tutto ignara e quindi preda dell’altra. Il passare del tempo è come un metronomo da pianoforte, è il ticchettio che ci porta inesorabilmente al momento tanto desiderato e pianificato della vendetta, mai così fredda, realizzata dopo così tanto tempo. Denis Dercourt ha utilizzato quel metronomo con grande sapienza, tenendoci sulla corda per quasi tutta la durata del film, fino in fondo, fino a quando Mélanie si allontana a piedi lungo la strada che la riporterà appagata alla sua futura vita ordinaria di probabile impiegata. Via da quel mondo che lei vede ovattato e glaciale, lei scappa dall’ipocrisia della gente che non vede i danni che arreca agli altri. È la ribellione metaforica del ceto piccolo borghese, rappresentato dalla sua famiglia di macellai, verso quello ricco e classista che alimenta il distacco sociale. Il regista realizza tutto ciò con un pathos impalpabile, viaggiando in parallelo a una realtà lontana, distaccata da quella banale e quotidiana, con una tensione psicologica a goccia come solo Alfred Hitchcock. Molto bravo.


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Ariane è nelle mani di Catherine Frot, la bravissima attrice francese di vasta esperienza cinematografica, televisiva e teatrale, che ben esprime i turbamenti che la indeboliscono nell’intimo, mostrando anche la rigidità originale del suo carattere e centellinando il progressivo sgretolamento delle certezze che aveva fino al momento dell’incontro con la giovane ragazza. La vera sorpresa è la belga Déborah François nei panni di Mélanie, che solo l’anno precedente aveva esordito con i fratelli Dardenne (L'enfant - Una storia d'amore), un biglietto da visita importante per iniziare la carriera: dallo sguardo ambiguo che maschera sin dall’inizio le sue reali intenzioni, è una bella attrice che si rivela adattissima nel progetto del regista. Ciò che alberga nell’animo del suo personaggio è ermeticamente blindato ed è necessario far trascorrere diversi minuti del film per capire bene dove mira il suo comportamento e lei è perfetta per creare la giusta inquietudine che la spinge. Inaccessibile e risoluta come la sua Mélanie. Una prova eccellente.


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Un film che lascia di stucco, con un finale da vero thriller, in cui lei va via a piedi lasciando alle spalle solo macerie.



 
 
 

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