Le nostre battaglie (2018)
- michemar

- 8 lug 2020
- Tempo di lettura: 5 min

Le nostre battaglie
(Nos batailles) Belgio/Francia 2018 dramma 1h38’
Regia: Guillaume Senez
Sceneggiatura: Guillaume Senez, Raphaëlle Desplechin
Fotografia: Elin Kirschfink
Montaggio: Julie Brenta
Musica: The Blaze
Scenografia: Florin Dima
Costumi: Julie Lebrun
Romain Duris: Olivier
Laure Calamy: Claire
Lætitia Dosch: Betty
Lucie Debay: Laura
Basile Grunberger: Elliot
Lena Girard Voss: Rose
Dominique Valadié: Joëlle
TRAMA: Olivier, un caporeparto di 39 anni, dà tutto per il suo lavoro. Stanca di essere trascurata, la moglie Laura, madre dei suoi due figli, decide di andare via di casa inchiodandolo così alle sue responsabilità. Del tutto perso e in balia degli eventi, Olivier dovrà fare i conti con la nuova condizione di padre single che deve crescere i figli da solo.
Voto 8

Un giorno Olivier, capo reparto in un magazzino di e-commerce, torna a casa e scopre che la moglie non c’è. Proprio non c’è più, non ci sono più neanche gli abiti. Dopo aver escluso il rapimento, capisce che è fuggita, lasciandolo solo a badare ai due figli. Sembra solo una piccola vicenda di una famiglia in crisi e invece è la dimostrazione che con una storia minima si possa parlare di come cambia la Storia: da un lato una famiglia in crisi come spesso succede, dall’altro il lavoro, che ti assorbe totalmente fino a trascurare gli affetti più intimi, e il ruolo di sindacalista che costringe a difendere gli operai dinanzi alla tragedia del precariato che la cosiddetta new economy ha portato a livelli socialmente insostenibili. Si corre su due binari, quindi: le enormi difficoltà del protagonista Olivier a gestire i due piccoli figli – preparare da mangiare, portarli a scuola, accudirli – e un lavoro impegnativo che concede poco tempo, che assorbe energie non solo fisiche ma anche mentali, mentre le preoccupazioni familiari incombono come nuvole nere minacciose.

Se non si conoscesse l’autore, durante la visione del film verrebbe spontaneo pensare che dietro la macchina da presa ci sia Ken Loach oppure i fratelli Dardenne, con cui il regista Guillaume Senez condivide le origini belghe francofoni. L’implacabilità della nuova economia che passa come un rullo compressore sulle vicende private, la problematicità di tenere assieme il nucleo familiare nonostante le avversità anche finanziarie, il tablet che misura la durata delle singole operazioni nel grande capannone di logistica dove lavora il protagonista, il ritmo infernale che bisogna mantenere, il muto da pagare. Tutti temi che i grandi autori su menzionati sviscerano in ogni loro opera. Invece è questo giovane regista belga, che non ama il cinema facile da raccontare, che affronta più aspetti di quelli che paiono al primo sguardo, a cominciare dai motivi sottili ma profondi, personali e sfuggenti, che hanno spinto una madre di famiglia a sparire totalmente senza lasciare traccia. Né a far ritrovare al marito e ai due figli un seppur minimo biglietto di addio e spiegazioni. Senez non affronta questo problema come facilmente accade di solito, non indaga e né fa giudicare agli altri personaggi le ragioni di un gesto così eclatante e grave. È un atto di coraggio nella sceneggiatura (scritta a quattro mani assieme a Raphaëlle Desplechin, sorella del regista Arnaud) ma anche una scelta psicologica delle persone che si aggirano attorno al marito. Nessuno vuol dare un giudizio di condanna, si interrogano sul fatto ma nessuno si sbilancia più di tanto. Anzi, sorge il dubbio che il film indichi indirettamente anche la libertà di una donna di abbandonare la famiglia. Lei sparisce e resta come un fantasma che aleggia sul resto della storia, dall’inizio fino alla fine, mentre si affacciano prepotenti l’aspetto gestionale della famiglia, con l’intervento della nonna e della zia dei bambini, e la battaglia sociale di Olivier, a cui furbescamente la ditta offre un lavoro di prestigio nell’ufficio delle risorse umane. Forse, ritengono che per lui, che conosce meglio dei funzionari tutti i colleghi, sia più facile licenziare?

Figura centrale è appunto Olivier, uomo generoso, di cuore, che ama i figli e la moglie, ma che il lavoro tiene fuori casa molte ore, calcolando anche gli impegni sindacali. È un leader nell’ambito del suo reparto, gli operai si affidano a lui e si fidano di lui per ogni problema di lavoro e di ambiente, è benvoluto e difende tutti, soprattutto i precari. Ma è parecchio assorbito da questo lavoro fino al punto che non riesce a dimostrare pazienza e amore nell’ambito familiare come vorrebbe: nella sfera intima diventa un altro, per lui tutto è complicato, potrebbe spiegare un problema di matematica a chiunque ma non a suo figlio, con cui finirebbe inevitabilmente per arrabbiarsi. È la stanchezza psicofisica che spesso un lavoratore porta in casa senza volerlo. Eppure, anche la sua amata Laura avrebbe potuto comportarsi così, ma all’opposto lei è una perfetta mamma e quando si accorge di non reggere più il ritmo (lavorando anch’essa, come commessa in un negozio di abbigliamento) prima si rivolge ad un dottore, poi sceglie la strada più facile e difficile allo stesso tempo: la fuga.

Il finale è degno dell’intero film, simbolico e aperto, senza una definitiva soluzione. L’ultima inquadratura è una incoraggiante scritta lasciata sul muro della casa: “On t’attend”, ti aspettiamo. È un augurio, un incitamento, una speranza. Perché i bambini, che sono sempre ottimisti, devono sperarlo, devono. Dice l’interessantissimo regista Guillaume Senez, che necessiterà seguire in futuro: “Nel 2015 avevo appena finito di girare il mio primo lungo, ‘Keeper’ (vincitore quell’anno al Torino Film Festival), la mia carriera era decisamente a una svolta ma purtroppo, proprio allora, io e la mamma dei miei figli ci separammo. Lei mi annunciò di doversi assentare per parecchio tempo, così io mi trovai a gestire una situazione complicatissima, resa più difficile dalla fragilità psicologica del momento. Da una parte il lavoro che necessitava di un’attenzione continua e una concentrazione totale, dall’altra i bambini e la vita privata, così precaria anche solo per l’organizzazione del quotidiano. Questa cosa mi è rimasta dentro e da lì è cominciato il processo di scrittura del film. La scelta di Laura? Semplicemente non la spiego. Ci sono degli elementi nel film che possono suggerire la sua condizione psicologica, ma è giusto che sia lo spettatore a farsi un’idea. Io riconosco la possibilità di quel desiderio, mollare tutto e sparire. Il mio vissuto mi ha portato forse a identificarmi con Olivier ma ho cercato di sposare anche il punto di vista di Laura, oltretutto in un contesto dove sono le donne ad aiutare l’uomo ad affrontare prima di tutto i propri limiti.”

Ho trovato il film bellissimo, perfettamente girato e interpretato in modo meraviglioso. In primis ho ritrovato un grandissimo Romain Duris, di cui avevo tanta voglia di rivedere all’opera in un soggetto drammatico dopo il bellissimo Tutti i battiti del mio cuore di Jacques Audiard che amo moltissimo: in questa occasione è un attore denso, intenso, concentrato, anzi è un concentrato di emozioni e debolezze, di partecipazione al dolore dei colleghi in difficoltà, di sorrisi e di arrabbiature, di momenti di piccola felicità e di grandi smarrimenti, di speranze e delusioni. È un attore che in questo film ho ammirato tantissimo e di cui ho da sempre grande stima. Tra i vari bravi comprimari si erge la notevole Laetitia Dosch nel ruolo della sorella Betty, una bella sorpresa, pronta a diversi stati d’animo, sorridente e imbronciata, un’attrice versatile e di bella presenza, che meriterebbe evidentemente maggior attenzione da parte degli autori. Ma è tutto il film che è molto ben interpretato, merito sicuramente dell’ottimo regista che ha lasciato ampia libertà nella recitazione, fornendo agli attori solo un copione di massima. A questo proposito è interessante la dichiarazione dello stesso Guillaume Senez: “Esiste ovviamente una sceneggiatura, di cui gli attori conoscono l’essenza, ma i dialoghi vengono come evocati sul set, io suggerisco la direzione, il senso, il resto viene da loro, confrontandosi. Lavorando in questo modo, tra improvvisazione e confronto dialettico, anche il testo si è adeguato alla sensibilità degli interpreti, rendendo i personaggi più autentici. Forse non è un caso che i più disponibili a recitare in questo modo siano i bambini, così affamati di spontaneità. Ma devo dire che Romain Duris e tutti gli altri sono stati magnifici, si sono messi in gioco riempiendo il film del loro talento.” E tutto ciò si nota molto bene, va detto.
Film meraviglioso, ottima regia e Romain Duris straordinario. Imperdibili.






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