Le verità (2019)
- michemar

- 13 ott 2019
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 14 giu 2023

Le verità
(La vérité) Francia/Giappone 2019, commedia, 1h46’
Regia: Hirokazu Kore-Eda
Sceneggiatura: Hirokazu Kore-Eda, Léa Le Dimna (adattamento)
Fotografia:Éric Gautier
Montaggio: Hirokazu Kore-Eda
Musiche: Aleksej Ajgi
Scenografia: Riton Dupire-Clément
Costumi: Pascaline Chavanne
Catherine Deneuve: Fabienne
Juliette Binoche: Lumir
Ethan Hawke: Hank
Clémentine Grenier: Charlotte
Manon Clavel: Manon
Christian Crahay: Jacques
Roger Van Hool: Pierre
Ludivine Sagnier: Amy
Laurent Capelluto: giornalista
Alain Libolt: Luc
TRAMA: Fabienne è una diva del cinema francese che è circondata da uomini che la amano e la ammirano, dall'ex marito al suo agente. Quando pubblica le sue memorie, la figlia Lumir (trasferitasi negli Stati Uniti per scappare dall'opprimente madre) torna in Francia con la sua famiglia. L'incontro tra le due donne è destinato a trasformarsi presto in scontro: emergeranno verità mai raccontate, si sistemeranno conti lasciati in sospeso e si confesseranno amore e risentimenti.
Voto 7,5

Lasciando da parte le disquisizioni già ampiamente discusse in tanti luoghi, virtuali e reali, sul titolo italiano (ma perché devono per forza cambiare i titoli originali, specialmente in questo caso trasformando un termine singolare a plurale ??? mistero! anche perché ha un motivo ben preciso, il titolo del libro che la protagonista sta per pubblicare è “La verità”), fa specie che il grande Hirokazu Kore-Eda per la prima volta in vita sua espatria e approda in Francia per una storia totalmente francese senza perdere però il suo fatidico e appassionato sguardo su quel nucleo umano chiamato famiglia. Famiglia come aggregazione di persone che convivono regolarmente o che, come in questo caso, si ritrovano dopo anni per una occasione speciale: la mamma Fabienne, nota attrice ormai invecchiata e che sta girando l’ennesimo film, ha scritto e pubblicato le sue memorie. E quando si va a scavare nel passato e si mette nero su bianco non si sa mai cosa può succedere: o si esaltano troppo alcuni particolari per comodità oppure se ne nascondono altri per egoismo, oppure ancora si racconta qualche bugia per vanagloria. Proprio come succede in questa occasione.
La prima inquadratura è dedicata al bellissimo parco della villa in cui abita Fabienne, che in pieno autunno parigino è ricco di colori autunnali, vivi e illumina(n)ti, scena che si ripeterà anche in chiusura (quasi inverno), come un inno alla natura e alle stagioni della vita, come quella della protagonista che è ormai sul viale del suo autunno. Il titolo al singolare, quindi, è quello del suo libro che sta per uscire nelle librerie, memorie dei suoi racconti intimi e familiari, dei tanti set frequentati, dei successi. Anche il titolo originale francese è al singolare, perché ognuno di noi ne ha una, convinto sia quella giusta, anche se diversa da quella degli altri. In realtà la verità è singolare perché è sempre e solo una, incontrovertibile, indiscutibile, le altre sono versioni, visioni personali, che noi, a furia di ripeterle, spesso cominciamo a credere come reali. Qualcuno le ha definite “rette parallele”, che corrono per conto proprio e che raramente si incrociano. È per questo motivo che da New York arriva la figlia Lumir (Juliette Binoche), con il marito (finto attore vero alcolista) Hank (Ethan Hawke) e la loro figlioletta Charlotte: è qui che si riscopre il Kore-Eda che noi conosciamo. Vecchi attriti, ricordi mal riposti nella mente, rivendicazioni, la famiglia, la dinamica degli affetti e delle solitudini nascoste. Sì, siamo in Francia, ma l’autore trasporta con la sua solita grazie e delicatezza il suo cinema nel nuovo ambiente e nella lingua francofona e lo si nota prestando attenzione, osservando la quiete, le pause e il giusto ritmo dei dialoghi, ben differenti da quelli frenetici del cinema d’oltralpe. Prende il suo tempo nelle inquadrature, ci mostra i piccoli particolari e le mille sfaccettature dei loro caratteri, sceglie bene le parole dei personaggi.

Perno principale del film è quindi la figura di Fabienne, attrice 72enne che non accetta il suo declino, motivo per cui sta diventando ancora più scostante e intrattabile di come è sempre stata, altezzosa come solo l’attuale Catherine Deneuve può e sa essere. L’attrice è un monumento nazionale francese e come un monumento recita e si muove sul set, anche in quello del film che si gira nel film. È del genere fantascientifico e vi partecipa con indolenza e controvoglia, sentendosi superiore alle colleghe e al giovane regista e per nemesi le è stato affidato il ruolo della figlia della protagonista, una giovane attrice bella e brava.
In ogni scena nel film, o nel film del film, domina la sua iconica pettinatura, sempre la stessa: fluttuosa, bionda, perfetta, che tratta con cura, ma è l’intera opera che rimane caratterizzata dai capelli femminili. Le chiome abbondanti abbelliscono Fabienne e Lumir, come anche la piccola Charlotte. E perfino la testa cespugliosa di Pierre, il marito della diva, da lei messo alla porta tanti anni prima e che si fa vivo brevemente per l’occasione speciale. I dissidi tra madre e figlia non ci mettono molto ad esplodere e sin dal primo approccio, dopo i rituali saluti apparentemente calorosi, si guardano già di traverso rimbeccandosi ad ogni minima occasione.
Ci sono tre piani narrativi che si intrecciano e si fondono, si staccano e ritornano assieme: la trama che seguiamo, il contenuto del libro - fonte e causa di discussioni continue tra le due donne - e il film che tiene impegnata l’attrice. I tre argomenti sembrano rincorrersi, intrecciarsi, combaciare. Anche il set del film pare raccontare le relazioni difficili tra donne (sia attrici che personaggi), di personaggi femminili che lottano per la supremazia familiare e per la freddezza dei sentimenti. Tutto combacia con la vita reale, con i litigi casalinghi, come per le verità e le bugie scritte nel libro autobiografico di Fabienne, i cui particolari irritano parecchio la sensibilità di Lumir, che accusa la madre di aver scritto pagine bugiarde con l’unico scopo di farsi piacere ai lettori e soprattutto a se stessa. Intanto un fantasma incombe e aleggia sulla casa e sulle due donne: il nome di Sara, l’altra figlia dell’attrice, anch’essa attrice con un grande futuro morta in un tragico incidente forse perché ubriaca dopo l’ennesimo scontro verbale con la madre, che – come accusa Lumir - le ha rubato il ruolo importante di un film. Sara tornerà più volte in ballo, ogni volta che la figlia vuole ferire la madre, ogni volta che necessita calmare la sua alterigia. Difficile da scalfire, possedendo Fabienne una corazza impenetrabile schermata da aforismi estemporanei (ce ne saranno diversi): “L’importante non è essere una cattiva madre o una cattiva amica, l’importante è essere una buona attrice. Il pubblico ti perdona tutto.”
A nulla serve contrastarla, “Impara un po’ di modestia” è un rimprovero che la sfiora appena, subito pronta a piazzare ancora una pretesa, un nuovo capriccio, un ulteriore rifiuto. Lumir le si avvicina e si allontana, conscia delle delusioni che può provare cedendo solo qualche centimetro di questo campo di battaglia, nel frattempo che la mamma le risponde rinfacciandole “Sei partita per sfuggirmi, perché sapevi di essere un’attrice modesta”. Per lei, la figlia è sempre scappata, è sempre stata in fuga per evitare di ammettere di esserle inferiore, di non riuscire nel difficile mestiere della recitazione. Non c’è nulla da fare, Fabienne ha un solo metro di giudizio: quanto sei brava a recitare sul set (ma nessuna è come lei) e quanto sei capace di sopportare le sue angherie. Come succede al suo fedelissimo agente, Jacques, sosia di Sir John Gielgud, l’unico essere al mondo capace di resistere ad ogni esuberanza della donna per anni e anni, fedelmente, fino ad essere cacciato (perché dimenticato nel maledetto libro) e a ritornare alla prima occasione, in quanto unico a saper preparare il tè come lei lo vuole, né caldo né freddo (oddio!) o a ricordarle ogni minimo impegno professionale con precisione e devozione.

L’uomo e il regista Hirokazu Kore-Eda che conosciamo c’è tutto, con la sua passione e voglia di parlarci delle donne e della famiglia, per come ci fa addentrare chirurgicamente nel tessuto familiare, camminando con delicato equilibrio tra i sentimenti e le incomprensioni, le intimità mentali, e poi per la precisione della sceneggiatura, la cura delle inquadrature, lo scavo nel profondo, lì dove ci si fa solo male. E una bambina. Poteva mancare una bimba o un adolescente? No, c’è Charlotte, che è un peperino importante, perché è lei che rivolge la domanda chiave giusto in chiusura. Quando Lumir, che di sceneggiature se ne intende, manda la bimba a dire alla nonna una frase adulatrice ben preparata in precedenza: al ritorno le chiederà Charlotte “Ma è la verità o no?” La madre resta perplessa e non sa rispondere…
Riecco la parola chiave, riecco quel termine così facile e nello stesso tempo tanto astruso, di cui spesso abbiamo tutti paura, che ci svela nudi, a cui tante volte preferiamo una bugia che ci salva, almeno nelle apparenze, giusto per salvare la faccia. Hirokazu Kore-Eda è qui che ci dimostra come la verità possa far male e possa far litigare una madre che non vuole ammettere le sue mancanze, che scrive falsità offensive e volutamente soprassiede ai meriti della figlia, la quale non l’ha mai perdonata e mai lo farà, anche se l’affetto non è mancato. Affetto ampiamente dimostrato da quell’abbraccio finale, dolce e sincero. Finalmente. Tanto sincero che può essere sfruttato per un ciak riuscito? (ancora un intreccio col set!)
In definitiva, è il regista nipponico che mi aspettavo e che conosciamo? Forse non è il solito e forse perché ho avvertito la mancanza di quella poesia dal forte sapore orientale che profumava le sue opere, o perché c’è meno vita vissuta in mezzo alla povera gente che ci ha quasi sempre mostrato. Ma lui è come un amico gentile e sorridente, che viene ogni tanto a trovarci per raccontare le sue storie particolari e poi se ne va, come è venuto, in punta di piedi. Perché anche in tutto ciò, lui, laureato in letteratura, è amante della poesia, lui la cerca e la trova sempre, come se “la poesia nel cinema è necessaria, che si tratti di violenza o di banalità quotidiana”, ennesimo aforisma scritto da lui e fatto enunciato da Fabienne.
Catherine Deneuve è quella di sempre, perlomeno quella grande diva che è, sempre incantevole e dominante, vieppiù in questo film, altresì insopportabile e per nulla amabile, che fa girare tutti intorno a sé: le basta uno sguardo sottecchi o diretto per dominare la scena. Juliette Binoche (che ha il merito della nascita del film, leggere più sotto) è più uggiosa del solito, dato il ruolo che le spetta, ma ogni volta che le labbra si allargano verso un sorriso diventa illuminante e radiosa. Ethan Hawke ha un ruolo così marginale che gli tocca fare quasi da comparsa e si deve limitare ad espressioni incerte, in quanto estraneo a ciò che accade intorno, ma il suo personaggio è volutamente avulso dal contesto, è una scelta ben precisa del regista. È una guerra tra donne, gli uomini soccombono. Il confronto tra gli uomini della storia sono leggermente sopraffatti mentre le donne sono intrappolate dal loro passato.

Dice il regista, intervistato a Venezia 2019: “Se ho osato avventurarmi in un film all'estero, in una lingua che non è la mia e con una troupe totalmente francese, è solo perché ho avuto la fortuna di incontrare Juliette Binoche, colei che ha fatto scattare la scintilla. Ci siamo conosciuti quando è venuta in Giappone nel 2011 e mi ha detto allora che avremmo un giorno dovuto far qualcosa insieme. Il suo suggerimento è stato il punto di partenza per questo progetto: vorrei prima di ogni cosa esprimerle tutto il mio rispetto e la mia gratitudine per l'audacia mostrata. Al centro della sceneggiatura di Le verità c'è il copione di una storia che ho iniziato a scrivere nel 2003 sulla notte in un camerino di un'attrice teatrale alle prese con i conti di fine carriera. Ho trasformato quella storia, inizialmente nata per il teatro, in una vicenda che coinvolge un'attrice di cinema e la figlia che ha messo da parte il proprio sogno di diventare anch'ella attrice. Durante la riscrittura, ho chiesto diverse volte a Catherine Deneuve e Juliette Binoche cosa significasse per loro la recitazione e le loro risposte hanno finito per entrare nella storia di Fabienne e Lumir, ridefinendola.
Ho fatto in modo che ‘Le verità’ fosse un film non solo serio ma anche spensierato, in cui dramma e commedia convivono come nella vita reale. Spero che la chimica tra gli attori e lo sguardo divertito della bambina riescano a stabilire il giusto tono con cui seguire la vicenda. E infine.. Non riesco a terminare il mio pensiero senza menzionare Catherine Deneuve. Non si è mai lamentata dei continui cambi di sceneggiatura, mantenendo inalterata la sua voglia di recitare. Avere il mio film nella sua filmografia, prestigiosa quanto la storia del cinema francese, è per me fonte di orgoglio e di ansia. Sul set, Catherine era allegra, adorabile e deliziosamente birichina: l'intera troupe era come sotto incantesimo al suo cospetto. Se una fresca brezza di allegria e libertà si avverte lungo il film (ambientato principalmente all'interno di una casa di famiglia), lo si deve al fascino e alla delicatezza di Catherine e Juliette.
Cosa rende tale una famiglia? La verità o le bugie? Che cosa scegliere tra una crudele verità o una gentile bugia? Sono queste le domande che ho continuato a pormi durante le riprese. Mi auguro che chiunque veda il film colga l'occasione per trovare le proprie risposte.”

(sul set)
Hirokazu Kore-Eda ha dedicato il film a Kirin Kiki, la nonnetta che vedevamo quasi sempre nei suoi film precedenti e che non c’è più.






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