Lola Pater (2017)
- michemar

- 24 ott 2019
- Tempo di lettura: 4 min

Lola Pater
Francia/Belgio 2017, drammatico, 1h35’
Regia: Nadir Moknèche
Sceneggiatura: Nadir Moknèche
Fotografia: Jeanne Lapoirie
Montaggio: Chantal Hymans
Musiche: Pierre Bastaroli
Scenografia: Johann George
Costumi: Johann George
Fanny Ardant: Lola / Farid Chekib
Tewfik Jallab: Zino Chekib
Nadia Kaci: zia di Zino
Lucie Debay: ragazza di Zino
Lubna Azabal: Malika
Nadia Kaci: Rachida
Véronique Dumont: Catherine
Bruno Sanches: Fred
TRAMA: Alla morte della madre, Zino si ripropone di ritrovare il padre, Farid. Sono però passati 25 anni da quando Farid è andato via. Con il tempo, l'uomo è divenuto Lola.
Voto 7

Lola Pater, un titolo distopico, contradditorio, antitetico. Lola è donna, Pater indica una condizione genitoriale maschile. È un titolo che però non inganna, indica anzi una realtà, almeno quella del racconto.
Un racconto delicato, sensibile, difficile da affrontare dato l’alto rischio di profanare la serietà dell’argomento, l’equilibrio socio-culturale del problema che porta in sé. Quando si affronta il dilemma dell’identità sessuale si cammina nel classico campo minato e facilmente si può scivolare nel patetico o nel comico involontario, magari grottesco per colpa. Questa introduzione perché Farid Chekib era un uomo, sposato e con un figlio, ma data la battaglia del suo corpo che non sopportava più un giorno decise di lasciare la moglie e il figlio e nonostante l’affetto sincero per lei se ne scappa lontano per realizzarsi come persona. Diventa prima donna, poi insegnante di danza del ventre, trovando anche una stabile situazione sentimentale con un’altra donna.

Ma non è lui/lei, Farid/Lola la protagonista unica della storia: a fianco a lei c’è il figlio fatto ormai uomo che ha una vita e un lavoro, Zino, il quale alla improvvisa morte della mamma va alla ricerca del padre di cui non ha assolutamente notizie ma solo l’indirizzo: quando scopre chi è e come è cambiato, lo scombussolamento lo allontana all’istante. E qui inizia veramente il film, fatto di incontri e scontri, di appuntamenti e di fallimenti, di serate e scenate, di sguardi e occhiatacce. Zino fa fatica ad accettare ciò che però è evidente. Come è anche evidente che l’argomento è un serissimo problema che bisogna saper affrontare e raccontare con mano sicura e con delicatezza, perché qui è tutto fragile ed è anche facile diventare grossolani. Il cinema se ne occupa ogni tanto ma quasi sempre si interessa solo della fase adolescenziale, al massimo della piena gioventù. Raramente va oltre.

Il regista Nadir Moknèche, francese di origine algerine che ha studiato in varie nazioni e anche in Italia (a Perugia, per Storia dell’Arte), ama scegliere argomenti e personaggi delle sue terre magrebine e stavolta affronta questa storia molto particolare. E si rivela nell’occasione un autore adatto e concentrato perché praticamente non sbaglia nulla: sa raccontare il primo impatto tra i due protagonisti e poi i non facili incontri necessari per farli conoscere meglio, portandoci dolcemente e in un momento tragico anche drammaticamente verso il bel finale. La bravura di Moknèche, oltre a saper scrivere una eccellente e delicata sceneggiatura, è consistita nell’aver saputo scegliere con oculatezza i due attori. La bella 68enne Fanny Ardant ha veramente il fisico del ruolo che serviva all’uopo, avendo quei lineamenti marcati necessari che la hanno accompagnata nella vita, senza per questo voler significare che guardandola possa far ricordare un uomo, anzi tutt’altro, essendo ancora oggi una donna affascinante e di classe, ma quel portamento e la sua bravura ad adattarsi sono stati decisivi per dare credibilità al suo personaggio. E senza volgarità o eccessi: perfetta. Sulla sponda opposta ecco una bella sorpresa, Tewfik Jallab, un bel giovanotto che sembra la versione pulita di Johnny Depp: è un attore francese figlio di madre marocchina e padre algerino-tunisino che ha tutte le caratteristiche e la bellezza di un magrebino, adattissimo al ruolo di Zino ma soprattutto dotato della necessaria sensibilità per raccontarci con le espressioni e i piccoli movimenti corporei la sua battaglia interna. Anche nel momento difficile di uno scontro verbale.
Lola: Essere in un corpo che non è il tuo, non puoi immaginare che sofferenza sia.
Zino: Non ti sei mai chiesto neanche una cazzo di volta se io avessi bisogno di te?
È il duello verbale che però serve a farli conoscere e avvicinare, quasi necessario e propedeutico. Inevitabile. Il bello viene adesso, perché le due persone devono imparare ad accettarsi: l’incontro tra i due non è di certo facile, ma c’è la probabilità che il sentimento che lega il genitore al figlio si riaccenda piano piano. Una bella scena importante che prelude ad un peggioramento che porta alla scena madre: Lola che riempie un bicchiere di alcol e di medicinali. Soppesa il contenuto e si/ci guarda nello specchio del bagno, riguarda il liquido e torna a guardarsi/ci nell’obiettivo della camera da presa. Ci sta dicendo addio?

Ma veramente un film così ispirato deve terminare tragicamente? Oppure la Lola baldanzosa e coraggiosa, che ha sempre avuto il coraggio di affrontare il mondo per affermare la sua personalità, chiederà un passaggio sulla moto del figlio Zino per una gita al mare? Vedremo, e nel frattempo devo ricordare che la mamma Malika abbandonata da Farid e che si vede solo in qualche sequenza è interpretata da Lubna Azabal, un’attrice che mi fa sempre sobbalzare, essendo stata La donna che canta, di Villeneuve.






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