Luce (2019)
- michemar

- 24 feb 2023
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 18 mag 2023

Luce
USA 2019 dramma 1h49’
Regia: Julius Onah
Soggetto: J.C. Lee (opera teatrale)
Sceneggiatura : Julius Onah, J. C. Lee
Fotografia: Larkin Seiple
Montaggio: Madeleine Gavin
Musiche: Geoff Barrow, Ben Salisbury
Scenografia: Lisa Myers
Costumi: Keri Langerman
Kelvin Harrison Jr.: Luce Edgar
Naomi Watts: Amy Edgar
Tim Roth: Peter Edgar
Octavia Spencer: prof. Harriet Wilson
Norbert Leo Butz: preside Dan Towson
Andrea Bang: Stephanie Kim
Astro: Deshaun Meeks
Marsha Stephanie Blake: Rosemary
TRAMA: Una coppia di coniugi è costretta a fare i conti con la loro immagine idealizzata del figlio, adottato dall'Eritrea dilaniata dalla guerra. Il tutto avviene dopo una scoperta allarmante fatta al liceo che minaccia di distruggere il suo status di studente modello.
Voto 7

Luce – che, come dice lui stesso in uno dei suoi brillanti discorsi nelle assemblee di scuola, inizialmente non gli piaceva perché si pronuncia quasi identicamente a “loose”, perdente - è un radioso giovanotto non afroamericano come tanti gli altri ma adottato dalla coppia borghese e più che benestante Peter e Amy Edgar (Tim Roth e Naomi Watts), dopo averlo strappato dalla terrificante fanciullezza dell’Eritrea dove imbracciava il fucile dei bambini-soldato, periodo che il giovane fa fatica a mettere da parte nella fertilissima mente. È cresciuto bene, adorato dai genitori acquisiti, specialmente da una madre che non gli ha mai fatto mancare nulla e che oggi si gode la piena affermazione del figlio nell’ambito scolastico, dove è ritenuto ampiamente il migliore, adorato dai professori e dai colleghi studenti, punto sicuro di riferimento. È intelligentissimo, brillante, disponibile, affabile, ottimo atleta della squadra, leader assoluto insomma. Per giunta coccolato in casa da due genitori che sono certi di come saprà, dopo il college, affermarsi nella società. Un quadro idilliaco. Troppo idilliaco, diciamo “illudente”. Tutto troppo perfetto per essere veramente reale e attendibile. Possibile che questo bel giovane non abbia un difetto, che non abbia commesso mai nessun peccato?

Il dubbio può venire, e se viene è giustificato, dal sorriso di Luce che lui sa esibire – questa è l’impressione che si prova da spettatore – a comando, che non pare spontaneo e in relazione alla circostanza, ma proprio spalancato all’improvviso, ipocrita e tanto smagliante da sembrare finto. Ma questa è solo un’impressione, almeno all’inizio. Il dubbio viene perché alla perfezione non crede nessun essere umano ragionevole e lui invece tale viene considerato: ottiene sempre voti alti, vince le gare, risponde educatamente a tutti, è amato anche dal preside - ma si sa, questo è un aspetto di convenienza commerciale data la conformazione finanziaria delle scuole americane, dove chi primeggia è il miglior spot pubblicitario per l’istituto – che non vuole che venga mai messo in discussione. Inoltre, è molto considerato dall’allenatore del team sportivo, adorato dalle ragazze e appoggio sicuro per gli amici più intimi, ad iniziare da Deshaun, uno studente afroamericano che è stato escluso dalla squadra della corsa per punizione, dopo che la valente professoressa di storia, Harriet Wilson (Octavia Spencer), compiendo un’azione ovviamente non lecita, ha scovato nel suo armadietto personale della marijuana, con conseguente denuncia alla polizia. Ciò ha fatto infuriare il nostro protagonista fino al punto di osteggiare la coscienziosa professoressa, alla quale riversa una eccessiva, ingiustificata e polemica animosità. Ma dopo un suo tema, peraltro scritto benissimo, sulla discutibile figura del rivoluzionario politico Frantz Fanon che sosteneva che il colonialismo può essere superato attraverso la violenza, la Wilson si allarma e ripete l’atto vietato, aprendo abusivamente l’armadietto di Luce e scoprendo quello che di inquietante custodisce.

Fermandomi nella esposizione della trama, sia per non spoilerare, sia per evitare la narrazione, il film dell’afroamericano (perché lo scrivo tante volte lo si intuisce) Julius Onah affronta con molta decisione alcuni temi importanti che riguardano diversi aspetti della nostra vita: la questione etnica, malattia mai guarita neanche in una nazione così densa di gente di differente razza, l’educazione scolastica nella società moderna, quella nell’ambito familiare, unitamente al senso di protezione che provano i genitori verso i figli, la responsabilità che un padre ed una madre hanno verso l’esterno quando hanno dubbi sulla liceità del comportamento di un figlio. È proprio quest’ultimo aspetto quello che pesa maggiormente nel film e che viene approfondito man mano che la trama si sviluppa. Fino a che punto un genitore può coprire una malefatta del proprio figlio senza rovinare i principi di rettitudine e di onestà intellettuale, oltre che legale e civica, che fino a quel giorno hanno insegnato? Che ne resta dopo aver deciso di eludere la verità e di offrire tutta la loro copertura pur di salvarlo dal giudizio dell’opinione pubblica, della scuola, e non ultimo quello civile e penale?

La intelligente scrittura dei dialoghi e in genere della ottima sceneggiatura del regista e dell’autore della pièce teatrale, J. C. Lee, che ne è il soggetto, è l’ossatura principale del film, perché sa scavare dentro i rapporti tra studente e la professoressa, complice un preside sveglio ma che non vuole rovinare il nome della scuola, e molto di più dentro l’ambito familiare, con due genitori continuamente combattuti se credere al candido Luce, il quale nega ogni addebito, anche in coincidenza di strani e gravi avvenimenti e a proposito delle rivelazioni della sua sconcertata ragazza Stephanie (Andrea Bang). Ad aggravare, non c’è alcuno che dia credito alla professoressa Harriet – per giunta troppo preoccupata dalla sorella Rosemary affetta da una malattia mentale - la quale se non viene creduta verrà sospesa dalla sua importante funzione, che lei svolge con grande competenza e preparazione. Come nel gioco feroce della torre, solo una persona rimarrà in cima, a ragione o a torto.

Per seguire questo perverso gioco di tiramolla, tra Luce e Harriet (anche aggredita da scritte razziste, essendo anch’essa nera), facendo pingpong tra le ragioni che adduce il giovane e la costernazione della professoressa, i dubbi che assalgono Peter che ogni tanto vuole prendere in mano la situazione per punire e denunciare suo figlio, quelli che vengono ad Amy ma che lei cancella per eccessivo amore verso Luce, fino al punto di negare con decisione anche quello che ha amaramente scoperto in casa, in questo bailamme in cui imperversa anche la rabbia del giovane che nei pochi attimi di sincera apertura alla mamma svela la personale sofferenza di restare, da giovane privilegiato e apprezzato da tutti, comunque un nero in un’America che distingue il colore della pelle e che il passato africano non lo hai dimenticato, in tutto ciò erano necessari una buona e solida regia che non smarrisse la lucidità e una sceneggiatura scritta alla perfezione, pena il decadimento a dramma di bassa qualità melodrammatica.

Ebbene, queste qualità non sono mancate, tranne (che peccato!) che nel finale, appena dopo il momento apicale di quello che doveva essere il definitivo chiarimento della situazione nello studio del preside della scuola. Dopo aver volato alto per tutta la durata, il film si infrange su un finale che lascia interdetti, che è - sia chiaro – una scelta, anzi la scelta che Amy decide, costringendo il marito Peter a seguirla. La storia salva uno e condanna l’altro personaggio, quando invece, ne sono certo, ogni spettatore si attendeva il contrario. E per rappresentarlo Julius Onah gira il finale con un piano sequenza sempre più nervoso, inquadrando la rabbia esplosiva che sfoga la tensione accumulata e accelerando il ritmo di una corsa che è liberatoria e forse anche di fuga dal comportamento tenuto fino a quel momento.

Buonissima la regia di Julius Onah, ottima la scrittura che però crolla appunto nel finale deludendo le aspettative, bravissimi gli attori più importanti: il giovane Kelvin Harrison Jr., un 25enne al momento dell’uscita del film che invece ne dimostra molto meno, tanto da interpretare uno studente di liceo, bello e molto bravo, con grande esibizione da oratore come richiesto dal film, eccellente carriera che conta già una quarantina di apparizioni su film importanti e meno, con presente e futuro assicurato; Naomi Watts da applausi, sempre all’altezza di ruoli drammatici impegnativi, mai, secondo me, sfruttata per le sue eccellenti doti; Tim Roth è semplicemente magnifico, in un personaggio che sembra cucito addosso per le sue qualità di attore adatta a personaggi disillusi, sfiduciati, che avrebbero tante cose da dire ma che preferiscono rinunciare, a cui basta qualche gesto delle mani per esprimere cose che altri non riescono neanche con le parole, un attore di altissimo livello (che capolavoro di bravura nel Sundown di Michel Franco!). Ed infine, per ultima ma non ultima, la straordinaria Octavia Spencer, che ogni volta è capace di dimostrare quanto sia brava e quanto meriterebbe ruoli ben più importanti, almeno come questo, perché la sua prof, qui, non è dietro a nessuno.

Thriller psicologico scoperto in ritardo anche perché inedito per le sale italiane, ma merita, nonostante il finale che lascia di stucco, molta ma molta attenzione, per la regia, l’ottima musica di Geoff Barrow e Ben Salisbury, la sceneggiatura e per la eccellente recitazione, portata in primo piano dal valente Julius Onah, che ovviamente, da buon afroamericano, porta avanti la giusta causa etnica nelle sue opere.






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