top of page

Titolo grande

Avenir Light una delle font preferite dai designer. Facile da leggere, viene utilizzata per titoli e paragrafi.

Lucky (2017)

  • Immagine del redattore: michemar
    michemar
  • 6 ott 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

ree

Lucky

USA 2017 dramma 1h28’

Regia: John Carroll Lynch

Sceneggiatura: Logan Sparks, Drago Sumonja

Fotografia: Tim Suhrstedt

Montaggio: Robert Gajic

Musiche: Elvis Kuehn

Scenografia: Almitra Corey

Costumi: Lisa Norcia

Harry Dean Stanton: Lucky

David Lynch: Howard

Ron Livingston: Bobby Lawrence

Ed Begley Jr.: Dr. Christian Kneedler

Tom Skerritt: Fred

Beth Grant: Elaine

James Darren: Paulie

Barry Shabaka Henley: Joe

Yvonne Huff: Loretta

Hugo Armstrong: Vincent

Bertila Damas: Bibi

Amy Claire: Frances

TRAMA: Lucky, novantenne ateo, ha sempre vissuto seguendo le sue regole e infischiandosene del giudizio di coloro che vivono nella sua città ai margini del deserto. Sull'orlo del precipizio della vita, è spinto verso un percorso di auto-esplorazione che conduce verso ciò che spesso è ritenuto irraggiungibile: l'illuminazione.

Voto 8


ree

Travis è ancora per strada, ancora sulla via sabbiosa che attraversa il deserto con la sua andatura traballante, lo stesso fisico asciutto, anzi magrissimo, capelli più lunghi del solito, naso e mento affilati, che sfida il caldo e il sole, berretto rosso sulla testa allora, cappellaccio da cowboy ora. Tutti intorno il silenzio e il vuoto umano. Travis però non è più alla ricerca della bellissima e bionda moglie Jane e di suo figlio Hunter, oggi lui è quello che per tutti, in quella piccola cittadina semideserta dell’Arizona - o in ogni caso del sud degli Stati Uniti ma molto vicina al Messico - è Lucky, un vecchio secco a cui la pelle va larga, come un’uniforme scolastica con lo spazio per la crescita (cit. Ian McEwan). Lui vive la vita da solo come un navigante circumnaviga la Terra in solitario, è talmente abitudinario che ripete da sempre gli stessi gesti e i medesimi riti quotidiani fino alla noia, senza mai però annoiarsi. Se gli chiedono se si sente solo con la vita che fa e con il fatto che non ha mai nessuno in casa, risponde pacificamente, ma con sicumera, che “Sentirsi soli e stare da soli sono due cose differenti!”.


ree

Il soggetto che i due sceneggiatori Logan Sparks e Drago Sumonja hanno offerto per la regia al bravo attore John Carroll Lynch (un eccellente caratteristica più volte chiamato dai fratelli Coen, Fincher, Scorsese) è una non-storia, è un involucro ricco di contenuti e di idee ma praticamente senza trama. In quell’involucro, una volta scartato come un regalo a sorpresa, scopriamo il declino della vita di un uomo molto anziano, così anziano che nulla lo spaventa più, tranne forse il fatto che un giorno è cascato sul pavimento di casa senza avvertire alcun malore o accusare uno svenimento che preannunciava la caduta. Eppure, non ha sintomi particolari, come può rilevare il suo medico, che dopo i controlli di routine previsti gli annuncia uno stato di salute ottimo e che nonostante l’età camperà ancora chissà quanto. La non-storia consiste nel ripetersi ossessivo degli identici spostamenti e delle abitudini ogni giorno agli stessi orari. Lucky si sveglia e tra una sigaretta e l’altra fa yoga, beve un litro di latte preso dalla fornita scorta del frigorifero, esce e si siede al solito bar per fare le parole crociate e bere un buon caffè. Poi a casa guarda scocciato lo stupido game show alla tv, riesce per andare nell’altro suo bar preferito e ordina il solito Bloody Mary, che gusta mentre parla coi soliti avventori di sempre, la maggior parte dei quali assiste muto alle chiacchiere tra lui, la padrona del locale, il suo uomo. L’unica variante è l’eventuale arrivo di un suo vecchio amico, Howard, (la maggiore sorpresa del film: David Lynch, eccellente ed ubbidiente attore agli ordini di un regista esordiente) che lamenta la fuga di Roosevelt, la sua tartaruga (testuggine! tiene a precisare), unica creatura che gli fa compagnia a casa (un’altra solitudine).


ree

Questo rito giornaliero si ripete da sempre e continua a non cambiare, con una precisione cronometrica, con l’unica variante prevista quando passa dall’emporio della immigrata messicana dove compra pacchetti di sigarette a cui non rinuncia mai, a maggior ragione da quando il dottore gli ha detto che è praticamente immortale e senza malattie. L’involucro prima citato contiene quindi soprattutto dialoghi, infinite e ripetitive conversazioni riguardanti la felicità, la solitudine ma specialmente il realismo, la cui definizione, che Lucky ha cercato sul dizionario per completare l’ennesimo cruciverba, gli è rimasta in mente e gli è tanto piaciuta che la ripete agli astanti del locale come fosse il saggio della compagnia. Luogo in cui pare di assistere a discorsi sui massimi sistemi filosofici ed esistenziali, che però portano la sua mente stanca, sebbene ancora lucidissima, a pensare a ciò che lui respinge indignato: la fine della vita, il buio che ci aspetta tutti, senza eccezione. Litiga perfino con un avvocato che si occupa, tra l’altro, di testamenti: lui a queste cose non ci pensa e non gli interessano. A furia di discuterne, è come se si svegliasse in lui un allarme e lentamente si rende conto che quei discorsi, anche se non li affronta, lo riguardano, eccome.


ree

È un film senza storia che contiene molta dolcezza, malinconia, forti sentimenti di amicizia e anche di antipatia istintiva. Perché Lucky è, nonostante l’apparenza burbera e l’atteggiamento a volte scostante, aperto a tutti, anche ai tanti messicani che vivono aldiquà del confine, perfettamente integrati nel micro-tessuto sociale di un piccolo centro assolato e polveroso. E, caratteristica non secondaria, tutti gli vogliono bene: se soltanto una volta salta uno degli anelli della catena abitudinaria di tutti i giorni, ecco che qualcuno si presenta per cercarlo a casa sua e sincerarsi che stia bene, come fa una volta la cameriera di colore del bar dove prende il caffè mattutino. Un film di sentimenti, di anziani, di chiacchiere: la summa della vita che volge al termine. L’eccellente e per nulla invasiva regia di John Carroll Lynch lascia scivolare lo svolgimento della sceneggiatura, dando praticamente tutto il film nelle mani, o per meglio dire, al viso scarnato e alle movenze inimitabili di Harry Dean Stanton, uno straordinario attore che arrivava in questo set all’età di 91 anni, che di qui a qualche mese purtroppo sarebbe morto. Un attore unico nel suo genere, amatissimo da sempre da noi spettatori e dai registi che lo hanno diretto, a partire proprio da quel Wim Wenders che ce lo mostrò indimenticabile con quel Travis di Paris, Texas (per me il migliore del regista tedesco) per finire al compagno di set David Lynch. Amato come lo è stato dai suoi concittadini del film.



ree

ree

Un film dolcissimo, prezioso, delicato, perfino divertente in alcuni momenti (tutto da godere il termine italoamericano ‘nu cazze che ci piove addosso in maniera assolutamente inaspettata nei discorsi inglesi nel locale delle bevute), e che ci lascia tristi nell’inquadratura finale, con Lucky che si allontana (per sempre?) e la tartaruga Roosevelt che riappare tra i cactus e i rovi della campagna bruciata che preannuncia il deserto del sud. Un ringraziamento va al simpatico regista Lynch e al suo omonimo più autorevole qui solo come attore e all’idea dei produttori e sceneggiatori che hanno voluto e saputo lasciarci un bel ricordo di un attore sempre amato dei cinefili, il caro Harry Dean Stanton. Perché il titolo del film si scrive Lucky, ma si legge con suo nome. Una lettera d'amore all'attore e all'uomo.

Il realismo esiste.

Ah sì? In che senso.

È il comportamento improntato ad una obiettiva considerazione e gestione delle condizioni e situazioni reali.

Quindi, vuol dire che le cose sono come le vedi?

Ma ciò che tu vedi non è lo stesso per me.



 
 
 

Commenti


Il Cinema secondo me,

michemar

cinefilo da bambino

bottom of page