Madre (2019)
- michemar
- 10 set 2021
- Tempo di lettura: 5 min

Madre
Spagna/Francia 2019 dramma 2h8’
Regia: Rodrigo Sorogoyen
Sceneggiatura: Isabel Peña, Rodrigo Sorogoyen
Fotografia: Alejandro de Pablo
Montaggio: Alberto del Campo
Musiche: Olivier Arson
Scenografia: Lorena Puerto
Costumi: Ana López Cobos
Marta Nieto: Elena
Jules Porier: Jean
Alex Brendemühl: Joseba
Anne Consigny: Léa
Frédéric Pierrot: Grégory
Guillaume Arnault: Benoît
Raúl Prieto: Ramón
Blanca Apilánez: madre di Elena
TRAMA: Elena ha perso il figlio Ivan, un bambino di sei anni, su una spiaggia in Francia. L'ultimo segno che avuto dal bimbo è stata una telefonata, in cui le diceva di non trovare il padre. Da allora sono passati dieci anni, si è trasferita a vivere su quella spiaggia (dove gestisce un ristorante) e ha vissuto in preda al dolore. Tempo dopo, prova a uscire dal tunnel oscuro in cui è caduta quando incontra un adolescente che rimette in discussione il suo equilibrio.
Voto 7

Sono passati dieci anni da quando il figlio seienne di Elena è scomparso. La prima sequenza, che ci svela l’accadimento, è un crescendo impressionante di drammaticità: la telefonata della donna al bimbo, in vacanza con il padre da cui si è separata, era iniziata per salutarlo e informarsi sull’andamento per poi scoprire che Iván è solo sulla spiaggia. Il papà si è allontanato e non è più tornato, mentre un uomo, sicuramente con intenzioni non benevoli, si sta avvicinando. La tensione sale mentre la situazione precipita e ogni consiglio si rivela inutile e mentre la batteria del cellulare si sta scaricando il contatto cade e Elena esce precipitosamente di casa per recarsi nella stazione di polizia. Dissolvenza.

Oggi Elena, dopo un decennio, è guarita o almeno dà a vedere che conduce una esistenza normale, però non è più in Spagna. Vive in Francia e lavora in un ristorante in riva al mare, nei pressi, presumiamo, della spiaggia maledetta dove ha perso l’amatissimo figlio. È una donna dal viso angelico, magrissima come un fuscello, ha un sorriso che ne aumenta la bellezza, gentile, disponibile, affidabile direttrice del locale. Passeggia spesso su quella spiaggia che le ha sconvolto la vita e durante una delle tante camminate fatte al tramonto, incrocia un gruppo di ragazzi che corrono allenandosi per le partite di beach soccer che si disputano tra villeggianti. L’ultimo in coda alla comitiva la fa girare mentre il giovane si allontana: il cervello di Elena ha suonato un allarme, le ha stimolato una reazione che, è evidente, sperava da sempre. Quell’adolescente alto e bello, dal viso rinascimentale contornato da riccioli lunghi e biondi, le ha risvegliato un ricordo che porta impresso nell’anima. Quel giovane ha l’età che oggi avrebbe Iván: può essere lui? come fare ad avvicinarlo e conoscerlo meglio? È più di un ricordo, è una sensazione forte, non può starsene inerte. D’altronde è lì apposta, perché - lo si intuisce perfettamente - lei non ha mai accantonato l’idea di ritrovarlo. Perché no?

Il film prende la piega che non ti aspetti. Elena fa di tutto per far conoscenza con il giovane Jean e si reca alla partita di calcio, lo avvicina, lo guarda con un sorriso che lo strega. Si danno appuntamento per la prima occasione utile. Lei vuole frequentarlo per capirlo meglio. Il suo istinto materno è però malato, è psicologicamente rovinato dai dieci anni trascorsi con la fissazione che suo figlio sia ancora vivo e rintracciabile. Lei lo guarda con il desiderio di una mamma, Jean lo scambia per qualcos’altro ed è attirato da un sentimento che non sa spiegarsi ma che lo spinge come un amante troppo giovane verso una donna molto più grande. Elena è ancora giovane, ha un nuovo uomo, spagnolo, con cui ha relazione stabile e forte ma questo per lei non è un tradimento, lo mette su un altro piano, che però la distrae dal rapporto con il compagno. Diventando poco affidabile. Pur di frequentare quel giovane abbandona qualche volta il luogo di lavoro, entra nella compagnia degli adolescenti con cui Jean trascorre la vacanza, si ubriaca con loro. Fa tutto per stargli vicino nel tempo libero, fino al punto di scatenare le legittime reazioni dei familiari del giovane e anche di Joseba, il compagno, il quale intuisce la realtà ma per amore e comprensione sorvola sulla mania che scatena il comportamento della donna.

La situazione precipita e i rimedi dei parenti sono anche violenti. La via intrapresa è senza uscita, anche perché la vacanza finirà, il locale chiuderà e ognuno tornerà alla base, in Francia e in Spagna. Ma la conclusione non può svolgersi in maniera comoda e sensata, perché il legame che si è creato tra i due è nella stessa misura anomalo e forte, da una parte e dall’altra, sebbene per motivi ben differenti, fomentato da loro e frenato invano da chi li circonda, fino ad una rottura immatura, almeno per la vita di Elena. Un amore (?) incomprensibile, innaturale, ma dal punto di vista di una mamma che non si è mai rassegnata forse è ammissibile. Non si può pretendere che una madre rinunci all’idea di non ritrovare il proprio figlio non avendo mai potuto vederne il corpo, vivo o morto. Senza un cadavere la speranza non può morire e che poi il sentimento della donna appaia a tutti, intimi o meno, malato non importi all’interessata: è così stravolta dalla speranza mai sopita e dalla scoperta di quel giovanotto che ogni ragionevole discorso non ha effetto.

Diretto da Rodrigo Sorogoyen (Che Dio ci perdoni [recensione], Il regno), quindi un cineasta specializzato in thriller e noir, il film è un adattamento cinematografico e la continuazione del suo cortometraggio omonimo del 2017, che è stato nominato come miglior cortometraggio agli Oscar del 2019. Mentre nel cortometraggio veniva raccontata la scomparsa di Iván e quindi tutto l’interesse era puntato sul tragico evento, in questo lungometraggio il regista mostra come si è sviluppata la vita della madre dieci anni dopo in quel limbo mentale che non l’aveva mai fatta rassegnare. Il difficile, a mio parere, era mantenere l’equilibrio della narrazione senza cadere nel patetico o nel paradossale, ma il regista è stato bilanciato e ha saputo raccontare le sofferenze intime della donna anche con delicatezza senza però sminuirle, e nel frattempo illustrare l’anomalia del rapporto donna-ragazzo con molta efficacia, con onestà intellettuale. E se tutto ciò avviene, il merito è anche di un’attrice che si è calata nei panni di Elena con molto impegno: Marta Nieto ha coinvolto corpo e viso, cuore e sguardo, in una continua evoluzione dei sentimenti che attraversano il suo sofferto personaggio. Tiene in piedi tutto il film con una interpretazione intensa e ammirevole, utilizzando la sua bellezza femminile per spiegare una amarissima perdita. Perché per Elena, la perdita è un sentimento così forte che, l'incontro (o la ricerca?) con quel ragazzo così speciale, Jean, le causa un'emozione potente che la spinge a non pensare che a lui, a desiderare di stare con lui. Addirittura a mettere in pericolo il proprio equilibrio (ricostruito dopo lunghi anni bui) per ritrovarsi con quell'adolescente francese praticamente sconosciuto. Il film è proprio tutto dentro ciò. E anche nel titolo, semplice e secco, quasi una invocazione, termine così conciso che però racchiude l’amore più potente verso la creatura partorita, anzi, come dice nel film, “Perché un figlio è un figlio, anche se non ti appartiene.”
La bravissima Marta Nieto vinse nel Premio Orizzonti per la miglior interpretazione femminile al Festival di Venezia 2019: meritatamente.
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